È davvero patologico definire il Narcisismo come Patologico!

Spinti dalla ricerca spasmodica dell’antica approvazione dei nostri genitori, viviamo in un teatrino in cui non ci rendiamo conto delle proiezioni che facciamo di questo meccanismo su tantissime dinamiche della nostra esistenza

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Colpisce l’articolo, diffuso con la newsletter di gennaio 2023, perché parla del cosiddetto Narcisismo Patologico. Povero Narciso, famoso per la tua bellezza, ma costretto oggi a diventare una malattia. E pensare che eri figlio di una ninfa e di un dio. Sì, nel mito disdegnavi ogni persona che si innamorava di te ma, a seguito di una punizione divina, hai pagato innamorandoti della tua stessa immagine riflessa in uno specchio d’acqua e sei morto cadendo nel lago in cui ti specchiavi. Non hai già pagato abbastanza per la tua crudeltà? Non hai totalmente espiato i peccati, legati al tuo egocentrismo, attraverso la tua morte? Esiste pena maggiore?
Ti ricordiamo spesso, sia parlando del sano amor proprio, sia di egoismo e vanità causate da un disturbo del senso di sé, che si riflette nelle relazioni con sé stessi e con gli altri. Ma da qui ad arrivare a parlare di patologia, ne passa di acqua sotto i ponti!

Il Festivaldellapsicologia nella newsletter cita la sesta puntata della quinta stagione di BoJack Horseman, una serie animata andata in onda su Netflix dal 2014 al 2020. Il protagonista è un attore di Hollywood decaduto, rimasto aggrappato al suo unico successo avvenuto molti anni prima, una sitcom degli anni ‘90 in cui interpretava un padre adottivo di 3 bambini orfani, per i quali diventa presto un punto di riferimento.
Il mondo di BoJack è contemporaneamente fantastico e incredibilmente realistico. I personaggi sono un misto fra esseri umani e animali antropomorfizzati, i drammi e le emozioni rappresentate sono una fucina di spunti per identificarsi nelle vicende narrate.
L’episodio in questione si intitola Free Churro ed è composto da un unico monologo di 25 minuti del protagonista: il soliloquio di BoJack durante l’elogio funebre della madre appena scomparsa. Le parole, le emozioni, le bugie e la rabbia del protagonista riempiono la scena e lo spettatore è accompagnato ad entrare nel mondo interno di BoJack.
La frase “io ti vedo”- le ultime parole rivolte dalla madre a BoJack – diventa la chiave di volta per comprendere l’intimità del protagonista, un uomo-cavallo di mezza età che è ancora tormentato dal dubbio di non essere mai stato riconosciuto e accettato per quello che era dai suoi genitori e che cerca approvazione e adorazione dagli altri per placare la sua angoscia esistenziale.

BoJack Horseman è un esempio da manuale di narcisismo patologico e non a caso in rete fioccano gli articoli sul tema. L’egoismo, la manipolazione continua delle emozioni altrui, l’impossibilità di appagare il suo bisogno di riconoscimento, la dipendenza, sono tutti elementi che caratterizzano il narcisismo, che nel linguaggio odierno diventa presto patologico, forse con troppa urgenza.I fans della serie, infatti, pur riconoscendo la terribile tendenza distruttiva del protagonista, si identificano spesso in lui e ritrovano qualcosa di sé stessi. Questo vuol dire che siamo tutti un po’ narcisisti patologici?
L’aspetto più interessante della serie, ciò che la rende un vero capolavoro, è che l’evoluzione di BoJack passa prima di tutto attraverso le relazioni con gli altri.

La serie (per cui ringrazio il Festivaldellapsicologia per avermela fatta conoscere) racconta l’evoluzione dei personaggi che avviene attraverso gli scambi, le relazioni, anche dopo il Salto Precipiziale che il protagonista è obbligato a fare a causa dalla morte della madre. Da qualche anno anch’io sogno di avere il coraggio di poter dire anche il negativo alle persone a me più care, durante il loro funerale, in maniera eretica rispetto ai canoni, per vivere maggiormente nella verità. Ma ho imparato sulla mia pelle che, quando possibile, è sempre meglio riuscire ad esprimersi verso le persone a cui teniamo, dicendo sia il positivo sia il negativo che proviamo nei loro confronti, mentre sono ancora in vita. Comunque, come dichiara il protagonista alla fine dell’episodio: “essere visti è il desiderio di tutti”. Per questo mi sembra patologico definire una patologia per una questione che è cosiddetta normale.

Anche perché, diciamoci la verità, quanti hanno avuto la fortuna di essere accettati, nel bene e nel male, dai propri genitori? Chi non si è dovuto snaturare, anche solo un pochino, per riuscire a ricevere quel “bravo” tanto atteso?   Non sarò di certo io a scagliare la prima pietra, anzi, grazie alle dritte del Festivaldellapsicologia, oggi posso definirmi anch’io Narcisista Patologico! Lavoro ogni giorno per riuscire a farmi bastare l’essere visto da me stesso e attraverso il Progetto Nuova Specie, qualche passaggio in questa direzione l’ho fatto, sentendomi oggi il mio valore, a prescindere da ciò che mi rimanda l’esterno.

Come ho fatto?  Bé, ritengo che Narciso fosse un tantino autistico perché, è vero che si amava – cosa tutt’altro che scontata soprattutto al giorno d’oggi dove la svalutazione la fa da padrona e soprassediamo sul fatto che poi si parlava soltanto di amore legato alla bellezza esteriore – ma era completamente chiuso rispetto all’amore che altre persone avrebbero avuto il desiderio di scambiare con lui. Probabilmente i suoi genitori, essendo una ninfa e un dio, avranno avuto delle aspettative un po’ troppo alte nei suoi confronti. La Fondazione Nuova Specie mette a disposizione tantissimi progetti, fra cui le Conv.Inte. (Convivenze Intensive), le quali ci permettono di sperimentarci in ciò che solo noi già siamo. Piano piano, a forza di buttarci, all’interno di un “utero” accogliente e non respingente perché pieno di aspettative, viene fuori almeno una qualità specifica nostra e allora abbiamo la possibilità di godere di ciò che noi davvero siamo, liberi da tutte le sovrastrutture giudicanti delle istituzioni ordinarie (scuola, lavoro, coppia, ecc.). In quel preciso istante avviene un’esplosione di emozioni che contrastano con tutti i blocchi che hanno tappato questa espressività assopita. In quel momento ci si rende conto del valore nostro, un valore poco o nulla riconosciuto dall’esterno e in primis dalla nostra famiglia d’origine. Quel valore nostro che, non essendo riusciti ad adagiarcelo addosso, siamo stati vittime del disagio, oggi sempre più dilagante e diffuso. In quel preciso istante succede qualcosa di imprevisto: quel “io ti vedo” che finalmente riusciamo a dire a noi stessi, senza il bisogno – quello sì patologico – che ce lo dica qualcun altro.

Adalberto Casalboni

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