“Sembra strano detto da una ragazza di diciassette anni, ma sento di aver già sprecato troppa vita!”

L’isolamento è una realtà che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo in prima persona, per questo fatico a trovare dei pro, da persona immersa in questa situazione. Magari tra qualche anno, ripensandoci, mi accorgerò del mio cambiamento; ma adesso, anche a causa della pressione emotiva che ci perseguita, necessito di un grande sforzo per riuscirci.
Ricordo che durante il primo lockdown, fase che ci ha portati da un giorno all’altro, come se niente fosse, a dover rimanere chiusi in casa e a cominciare a svolgere le lezioni tramite un computer, ogni giorno mi sentivo sempre sempre più delusa da me stessa, soffocata, come se non potessi più essere felice. Tuttora, se ci ripenso, me lo ricordo come un periodo totalmente oscuro. Succede di associare emozioni che si sono provate frequentemente in un momento della propria vita, al momento stesso. Io, nonostante fosse primavera, me lo ricordo nero, buio, profondo. Mai una volta mi sono lamentata di non poter incontrare le mie amiche, di non poter andare in discoteca o del fatto che ci fosse stata tolta qualunque valvola di sfogo, mai.
Questo perché comprendevo perfettamente che eravamo immersi in una pandemia globale, una situazione surreale, un’atmosfera di incredulità che a dir la verità ancora mi pervade.
C’erano e ci sono cose decisamente più importanti del divertimento di noi giovani: si guardava il telegiornale con un barlume di speranza negli occhi, spento giorno dopo giorno dalle centinaia di morti e contagiati.
Tuttavia sapete chi non ne ha tenuto minimamente conto? La DAD. La scuola, che ha da sempre l’obiettivo di aiutarci a spiccare il volo della vita, in quel momento e in quel modo, ci ha tagliato le ali, trasformandosi in un sistema “tossico” e opprimente, e questo non a causa di preside, professori o alunni. Tutto ad un tratto ci siamo trovati, e ci troviamo tuttora, a passare ore e ore davanti allo schermo.
Dicono che sia una fortuna avere a disposizione la tecnologia per svolgere lezioni a distanza, quando fino al giorno prima eravamo la Generazione Z, giovani criticati continuamente per la loro dipendenza dalle nuove tecnologie, addirittura affermando che era necessario che stessimo al telefono non oltre un’ora al giorno. Dicono che non siamo né un voto né delle macchinette, mentre noi li ascoltiamo immobili dietro uno schermo, ricordando la dolcezza del contatto umano, costretti all’interno dell’unica realtà che ci è permessa vivere dentro quattro mura: la scuola.
Mentre tutto è innaturalmente immobile, ci viene naturalmente chiesto di finire il programma, come se nulla fosse. Come se una pandemia mondiale fosse solo il contorno di ciò che si è trasformato in un’ossessione, l’unica cosa importante per noi in questo momento, perché è l’unica che abbiamo: ancora una volta, la scuola.
In questo modo forse si finisce il programma, ma gli alunni incolpano i professori della loro insensibilità, mentre i professori incolpano gli alunni della loro inerzia, quando l’unica colpa la possiede l’imposizione che ci costringe a fare scuola in questo modo. Il prezzo da pagare per la nostra cultura è stato un’enorme ricaduta psicologica su studenti e insegnanti.
Questo non significa che anche solo l’isolamento non abbia avuto delle conseguenze. Sicuramente è stato un periodo molto importante, che ha portato con sé cambiamenti consistenti. È stato più difficile però, a mio parere, tornare alla vita rispettando tutte le limitazioni che di umano e normale non hanno proprio nulla. Finché siamo chiusi in casa possiamo solo immaginarla la libertà, ma quando ce la troviamo davanti senza poterne godere appieno diventa tutto più complicato.
Faccio un semplice esempio: quest’estate sono tornata a lavorare per un’associazione della quale faccio parte da due anni, La Mela Rossa, che organizza l’estate dei centri estivi e l’inverno dei doposcuola. All’interno di essa sono cresciuta molto e sono riuscita a esprimere me stessa e quello che voglio fare nella vita, ovvero lavorare con i bambini. Quest’anno tutti avevano l’obbligo di indossare la mascherina, ma questa, nonostante il caldo, non era per me il peso maggiore. Ciò che mi tormentava era il pensiero di un bambino che si sarebbe avvicinato a me per abbracciarmi, e io che di conseguenza gli avrei dovuto dire: “No, dobbiamo restare distanti”.
Insegnare ai bambini, pura espressione di amore, il distanziamento sociale, è disumano. Come lo è veder morire un proprio caro in ospedale senza fargli visita, o il tormento di poter mettere a rischio la vita di qualcuno contagiandolo.

L’unica cosa che sento di avere imparato da questo periodo è che la vita è una e non ha senso limitare il proprio essere, se non è la vita stessa a farlo. Voglio vivere appieno, cogliere “la bella rosa del giardino” prima che sfiorisca, perché, anche se sembra strano detto da una ragazza di diciassette anni, sento di aver già sprecato troppa vita.

Veronica B.

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