Corso Maestrepolo, rubrica PASQUALINA: I PERCHE’ DELL’ESISTENZA. “Perché i fratelli devono soffrire così tanto, prima di potersi incontrare?” Domanda di Annamaria, riscontro di Celeste

Io sono la terza di cinque figli, tre sorelle e due fratelli, quindi questo tema mi ha subito colpito Annamaria e ti ringrazio per averlo proposto.
I rapporti tra fratelli risentono, a mio avviso, delle dinamiche familiari e degli equilibri su cui questa si costruisce e si fonda.
Per cui non sono bilanciati, simmetrici, ma piuttosto confusi, non definiti, non del tutto chiari, risentono delle soluzioni che, di volta in volta, si sono trovate. Spesso si creano rapporti di dipendenza, di simbiosi, quando ad esempio, i membri della famiglia non sono distinti, non hanno risolto i loro nodi, i blocchi e così non riescono a stabilire rapporti sani, liberi, maturi.
Anche la famiglia è un gruppo, con proprie dinamiche, leader e schieramenti. Ci sono anche sotto degli equilibri, forze, condizionamenti, per cui tutte le contraddizioni, le questioni non affrontate o evitate, si ripercuotono sulle dinamiche familiari, sul modo in cui ci si relaziona, risentendone fortemente. Perciò accade spesso che non riescono ad essere “naturali”, ma devono sempre tener conto di questo aspetto.
Nella relazione tra fratelli incide tanto il rapporto con i genitori, che sono le prime figure di riferimento, degli specchi in cui ci riflettiamo. E, per noi, diventano autorevoli, vediamo le cose, stiamo nel mondo “attraverso” di loro, tramite quello che ci trasmettono, il loro modo di vedere, come si sono formati, le loro esperienze, anche negative, il loro sapere emotivo. Il nostro modo di guardare gli altri fratelli dipende molto da ciò.
Ed è naturale e automatico che noi prendiamo per buono ciò che ci dicono, perché ci dà sicurezza, perché, se mettiamo in discussione loro, è come se ci destabilizzassimo anche noi, è un fatto istintivo, perché abbiamo bisogno di riferimenti, certezze, bisogno di rassicurazione. Se no per noi è come un terremoto.
Per avere un buon equilibrio nel nucleo familiare, a mio parere, tutti devono essere distinti, per non avere fraintendimenti; si deve comunicare in maniera inequivoca, non ambivalente, senza sottintesi. Ci si deve accettare per come si è, accogliere anche il negativo, conviverci e non eliminarlo a tutti i costi, non considerarlo un tabù, qualcosa da non mostrare e mai far venir fuori.
Spesso tendono a bloccarci per paure, angosce, per “evitare il peggio”, perché coloro che ci accompagnano sono già spaventati per il negativo che la vita ha presentato loro.
Allora, per paura di sbagliare, per timore, ci si irrigidisce, non si tollera, anche perché si ha paura di soffrire.
Anche se inconsapevolmente, si preferisce giustificarsi, mantenere posizioni di comodo, solite, adeguarsi, stabilire equilibri e negare spesso anche a se stessi “, perché si temono le nostre parti oscure, le cadute, per l’istinto di preservarci, difenderci, per paura di soccombere.
Credo che la famiglia sia un tutt’uno, un intero, un sistema, per cui c’è interscambio, “cresce” insieme. Il comportamento di un componente influenza e determina quello degli altri, siamo una rete con connessioni, non c’è oggettività, rapporti fissi e determinati, ma un insieme di variabili, un sistema complesso che non segue un’unica direzione.
Che dietro, soprattutto, ha una storia, un vissuto, eventi che non sono determinabili, sempre uguali, ma comprende anche le emozioni, ad esempio, che non sono “razionali”, ma più imprevedibili.
La cosa importante soprattutto è saper gestire le emozioni, conoscerle e riconoscerle, saperle viverle tutte, non “edulcorare”, rinnegare alcune, perché se non ci fai i conti, le comprendi, queste rimangono irrisolte, vengono “messe a tacere”, messe nello scantinato, ma ci sono sempre, diventano, pesi ingombranti, zavorre, che rallentano il tuo procedere, lo ostacolano.
Un flusso interrotto crea sempre “trombi”, non consente la circolazione, perché abbiamo bisogno anche di “stare con noi stessi”, le nostre paure, angosce, di “vedere”, contemplare la realtà così com’è, , di esprimere ciò che abbiamo dentro, la rabbia, i bisogni, desideri, di chiedere, di non rimanere fissi in una “dimensione”, visione, ma essere dinamici, in movimento così come è la vita.
Per camminare, un piede si alza e uno sta fermo, non è un movimento continuo, ma abbiamo anche bisogno di uscire fuori per come siamo, degli errori, delle cadute (holding).
Altrimenti rimaniamo sempre nel dubbio, nell’ incertezza e non saprò scegliere.
Quando non comprendiamo bene ciò che viviamo, in noi si formano delle fratture, crepe, che rendono il nostro passo più incerto e pesante.
E rimarginare queste suture è impegnativo, specie perché sotto ci sono emozioni e vissuti profondi, “incisi” nella nostra vita, radicati, non sono esterne, ma sono un tutt’uno con la vita. È un po’ come sradicare un albero o un ferro rimasto nel corpo per tanto tempo.
Si tratta di cose vissute sulla propria pelle che sono legate anche al dolore, all’accettazione, alla nostra identità, formano la nostra biografia. Dietro ci sono delle scelte fatte durante la crescita e per cui siamo diventati “quello che siamo”.
Credo siano passaggi obbligati, tunnel, canali da parto, perché bisogna guardare la realtà in faccia, a muso duro, senza mediazioni, bisogna anche ammettere e riconoscere e spesso fare un paso indietro.
Per non rimuovere bisogna un po’soffrire. Devi anche opporti a quello che è stato stabilito, che è socialmente accettabile, l’autorità genitoriale, lo “schema i riferimento”, il modello che altri hanno pensato per noi, quello con cui ci hanno formato.
Che, anche se è fatto con un buon intento, non è detto che sia il meglio che ci possa essere, perché noi uomini siamo fallibili e limitati.
Io constato, vedo, che, per i miei fratelli, “avvicinarsi” a me, entrare in relazione con me, costa fatica, perché è un po’ “tradire” i miei genitori, fare torto a loro e agli altri fratelli.
E, per loro, sarebbe mettersi contro l’ordine più accettato, la “regola”, che si è tramandata, che “conserva” e che tutti accettano e seguono.
Li vedo perplessi, contrastati, in crisi. In questo modo loro si sentono dalla parte del giusto, “legittimati”, tutelati e poi non è semplice rinunciare ad una concezione con cui siamo nati e cresciuti, l’ambiente in cui siamo nati, la storia della nostra famiglia, le vicissitudini varie.
Io e i miei fratelli non siamo molto in contatto, perché, credo, ognuno ha in sé delle cose, aspetti non risolti, qualcosa che lo limita, anche se magari non gli è ben chiaro, non ne è pienamente consapevole o non lo riconosce nemmeno a sé.
Ognuno, chi più chi meno, ha avuto difficoltà ad esprimersi in pieno, per quel che è, qualcosa ci ha uno distanziati, una specie di schermo. Penso che ognuno abbia dovuto affrontare il suo banco di prova. Per legare con i fratelli, bisogna prima accettarsi, riconoscersi, risolvere le proprie crisi ‘identità, il bisogno di essere riconosciuto.
Ricordo che mio fratello maggiore, Michele, durante l’adolescenza disse: “E si, tanto lo sapevo che la pecora nera di questa famiglia sono io!”.
Questa espressione mi fece vedere, riconoscere anche in lui un conflitto, un disappunto, un malcontento. Ad esempio, la domenica puntualmente mia madre gli faceva l’appunto che non metteva il vestito, ma sempre i jeans.
Mia sorella Pina, di un anno più piccola, con cui condividevo tanto, era sempre redarguita per delle uscite un po’ aggressive e, per metterla in guardia, tiravano sempre in ballo il fatto che sarebbe diventata “scema” come “zia Maria” che litigava con tutti.
Insomma mi pare che ognuno venga “messo su un binario” e poi incrociarsi è difficile.
Lina, la sorella grande, era quella che più dava soddisfazioni per così dire, era spigliata, estroversa, insomma rispondeva meglio, era più somigliante al modello univoco, condiviso, a come “si dovrebbe essere”. Credo che per loro fosse era anche più rassicurante, affidabile, una conferma.
Però anche lei credo che soffra del fatto che per riavvicinarsi a noi, deve in qualche modo “negare” i miei, ciò che l’ha “nutrita”, penso che per lei sia profonda la cosa, è combattuta perché il suo è un legame forte.
Fabio, il piccolo, che noi, per scherzare, chiamavamo il “cocco di mamma”, è molto legato sia a mia madre che a mio padre e anche lui, è molto sbilanciato, si sente “in dovere” di mettersi dalla parte dei miei, ha difficoltà a “fare un ponte”.
Io ho ancora rapporti formali con loro, non uno scambio profondo, restiamo molto sulle nostre posizioni, ognuno si difende, non si apre.
Con loro ho avuto sempre scambi sofferti, non riuscivo a condividere con loro, perché ero troppo presa, coinvolta da tutto quello che mi vivevo, il negativo che avevo dentro e con cui dovevo confrontarmi. Non avevo energie, ero svuotata, in affanno e non ben predisposta.
È chiaro che loro percepivano questo e tendevano ad allontanarsi, erano confusi, perché non comprendevano il mio atteggiamento, il mio comportamento, le mie chiusure. Ciò li stressava, li indispettiva,
suscitava in loro anche rabbia, dolore, di fronte alla mia indifferenza, congelamento, anaffettività.
Questa è l’origine del nostro allontanamento, loro non accettavano questo, soffrivano, non se lo spiegavano, lo vivevano come un insulto. E per loro era anche una delusione, per cui adesso riavvicinarsi vuol dire ripercorrere un passato pesante, vicende ed esperienze che hanno segnato la storia della mia famiglia e spesso non sono emerse, sono state evitate.
Una volta proprio Michele mi disse con un tono secco: “Cuore di pietra! “Io mi sentii morire, perché quella fu una conferma per la mia svalutazione, il dito nella piaga, ricordo il senso di fallimento, disfatta, di non valere nulla, di essere inutile. Una doccia fredda!
Lui, in questo modo, difendeva mia madre, perché mi percepiva come una minaccia, lui vedeva le difficoltà di mia madre, il suo star male, la freddezza tra di noi, il nostro respingerci, la mancanza di affetto. Io non facevo parte in pieno della famiglia, ero in una posizione un po’ esterna, non definita, un elemento a parte che non riusciva ad includere ed includersi, una nota stonata, una voce fuori dal coro e questo era la conseguenza di vicende dolorose.

Celeste

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