Corso Maestrepolo, rubrica PASQUALINA: I PERCHE’ DELL’ESISTENZA. Il grano e la zizzania, osservazioni di Gianni Chiariello. Suggerimento/conforto di Celeste
Vedrò che cosa fare da domani, mi rimboccherò le maniche e cercherò di fortificare il mio maschile e il mio femminile a servizio dell’Indico e della mia vita, per separare il grano buono dalla zizzania velenosa, per non rischiare di perdere il raccolto.
Credo Gianni che, in tutte le esperienze di vita, ci sia la “parte zizzania”, cioè il contraltare, la zona d’ombra. Ho visto che le situazioni non sono mai prive di problemi, ci sono sempre pietre sul cammino.
La cosa difficile, semmai, è convivere col negativo, saperlo sfruttare a proprio favore.
Spesso non trovavo un senso alla mia sofferenza, non vedevo affatto il “rovescio della medaglia”, non c’era una prospettiva, qualcosa che la illuminasse. E, “stare” in questa situazione è faticoso, perché ti sembra di soffrire per soffrire, ti sembra ingiusto, una pena.
Poi, d’istinto, tutti respingiamo il negativo, ci si abitua al dolore, ci si tempra col tempo, ma, specie all’inizio, noi stiamo male, perché viviamo ciò che ci accade in maniera assoluta, totalizzante, non ci distacchiamo. Ci vuole molta forza di volontà e lasciarsi travolgere dal dolore è molto facile. Spesso ho avuto la tentazione di “mollare” tutto e lasciarmi andare.
Anche perché la zizzania ci coglie impreparati, ci spiazza, quindi bisogna fare un lavoro per “includerla”, per comprenderla, assimilarla e farcene una ragione. E spesso il senso lo capisci dopo, quando cresci di più e allora quell’episodio lo “inquadri” in un altro modo, lo ridimensioni, lo inserisci in un contesto più ampio.
Io, ad esempio, prendevo tutto sul serio, poi ho capito che spesso non bisogna vedere solo quello che la gente mostra o dice, ma sempre soppesare, vagliare, mantenere sempre un contatto con se stessi, filtrare le cose attraverso il nostro modo di sentire. Essere soprattutto indipendenti nel pensiero e nel giudizio.
Quando non siamo collegati alla nostra profondità, non ci conosciamo, allora non abbiamo un punto mitotico che ci fa stare in equilibrio nella nostra esistenza.
Io stavo male perché l’esterno mi “invadeva”, non riuscivo a preservare il mio spazio e ancora adesso, però ne sono più consapevole.
Quindi ero una foglia al vento, non avevo alcuna certezza, punto fermo, ero in balia degli eventi e dipendevo da tutto e tutti. E questo è devastante perché non sai apprezzare niente, niente ti dà gioia, tutto ha lo stesso colore e sapore. Sei solo il Signor Nessuno, una perfetta sconosciuta, che passa inosservata, che non ha il suo posto nel mondo, che nessuno ascolta, che non esprime mai il suo parere, dice sempre si, non dà fastidio, rimane sempre nel dubbio, non decide, non sceglie, un coniglio.
Penso che anche accogliere il dolore sia una strategia di adattamento, un modo per non stare ancora peggio, che ci consente di non opporci troppo, quindi ci fa spendere anche meno energie. Accettare anche di “morire”, di far morire anche parti nostre.
Anche in questo ho fatto fatica, perché dovevo rinunciare, lasciare un’identità ormai strutturata da anni, diventata una seconda pelle, cambiare, ammettere i miei errori, i miei limiti, chiedere scusa, prendere atto con sincerità e rivedere il mio comportamento e soprattutto cercare di essere me stessa, di mostrare tutti i lati miei, non solo quelli più ben visti, presentabili. Espormi quindi al rischio di essere nuovamente delusa, di non piacere, di risultare antipatica, per volermi più bene, per cominciare a capire davvero chi ero, a vivere secondo i miei bisogni, non solo per adeguarmi agli altri ed essere sicura in un guscio che mi teneva protetta.
Ma, per “tenere” tutto, per non far vedere i miei problemi, il mio malessere, io ho perso me stessa, ho fatto a pezzettini la mia vita e, se non hai cura della tua vita, gli altri non lo faranno per te.
Puoi stare bene con gli altri solo se prima ti realizzi come persona, se non hai paura di perdere le persone e affermi il tuo diritto di esistere e impari a non sentirti sbagliato e riconosci che sei ” ciò che solo io già sono”(Jhavè).
La Fondazione Nuova Specie ci insegna proprio a dar valore anche al negativo, che tutti scartano, demonizzano, quindi a non vederlo in senso morale, ma più come un passaggio, una fase che, però, fa parte del tutto, anzi contribuisce a crearlo. Proprio in questi momenti noi ci ascoltiamo di più, dobbiamo ricongiungerci e uscirne più forti, migliori. Proprio come il giorno e la notte che continuamente, eternamente si alternano.
Allora il grano “cresce” insieme alla zizzania, non può farne a meno, vanno di pari passo, sono strettamente connessi. La zizzania ti fa diventare più resistente, grazie ad essa tu devi andare più in profondità, è “un aiuto contro” per fare un salto, per darti la spinta per procedere e lasciare anche tante cose, tagliare i rami secchi.
Non si possono separare i due aspetti, perché per “maturare” ci vuole qualcosa che ti spinge, è uno sprono, perché, per crescere, bisogna superare ostacoli, affrontare i problemi, sono i mattoni su cui salire per vedere di più, per superarsi.
Purtroppo il percorso non è lineare, ma accidentato, imprevedibile, allora credo che crescere sia avere più consapevolezza di ciò, farsene una ragione ed adeguarsi, usarlo per essere più pronti, preparati agli avvenimenti, alle prove future.
Certo è poi che proporre qualcosa di originale, nuovo, è sempre un rischio, perché bisogna andare per tentativi, essere cauti, prudenti. Inoltre, come si dice: “la maggioranza vince”, quindi riuscire ad introdurre qualcosa, aprire un varco, richiede un duro lavoro ed impegno, perché è difficile trovare ascolto, attenzione, interesse.
Nessuno è ben disposto a mettersi in gioco, perché ci si deve esporre, scomodare, mentre seguire il “corso” è più semplice e anche riconosciuto e tollerato.
La vedo come la lotta tra Golia e Davide, impari, per cui occorre molta pazienza, essere attivamente insistenti, sperare, credere.
E non pensare che perché siamo soli siamo nel torto, perché bisogna sempre fare quello che sentiamo di fare, ciò che ci fa stare bene, la nostra ragione di vita.
La zizzania è anche imparare a stare in solitudine, riconoscersi, riscoprirsi, fare un bilancio, illuminarsi, contemplare per poter imparare dagli errori, trarne una lezione.
Per me la solitudine è stata una conquista. Io avevo sempre evitato un dialogo con me stessa, non me lo ero permessa per paura di non essere accettata, compresa e perché io per prima mi rifiutavo.
E, invece, proprio lì trovi la forza, perché vuoi riscoprire il tuo valore, la tua dimensione più autentica, il fatto che sei importante già solo per il fatto di esistere.
Oggi facciamo tante cose, ma siamo molto soli e lo siamo perché soli non sappiamo stare, ci vogliono sempre stimoli dall’esterno.
Invece la solitudine ti insegna la cosa più importante, il silenzio, staccare il collegamento con l’esterno per “bastarsi”, perché, in fondo, il vero viaggio è quello che facciamo dentro di noi, quello che ci permette di camminare, fare la strada, ci fa aderire al terreno, ci fa vivere tutto con più intensità, ci riempie. È tutto ciò che serve, l’indispensabile, l’unico bagaglio che ci porta ovunque, è leggero, ma contiene tutto. Qualcuno diceva: ” Basta la salute e un paio di scarpe nuove e puoi girare il mondo”.
Capire poi che la salute e la salvezza sono la stessa cosa è importante, perché ti fa avere un punto di vista più ampio, io, altrimenti, sarei rimasta ingabbiata in diagnosi, etichette. Mentre ho avuto un orizzonte molto più largo, sicuramente più umano che non è parziale, ma ha una visione globale delle cose. Quindi ti aiuta a “mettere insieme”, creare, formare una rete, aldilà dei nodi, una Unità, a vedere le connessioni. Non divide, ma ti dà il senso, una visione d’insieme.
Oggi la società tende a “scartare”, escludere, tutto ciò che non “comprende”, che non si adegua, anche che non è funzionale.
Quanto ho sofferto quando ho dovuto convivere col negativo, quando la zizzania soffocava completamente le spighe. Allora era difficile sperare, avere fiducia, perché lo spiraglio era veramente minimo.
Oggi poi c’è anche molto confronto-differenza e competizione, allora o sei “in” o sei “out”, giusto o sbagliato, si gareggia e chi sta avanti vede gli altri come perdenti, sfigati, guardiamo sempre dall’alto in basso, affianco non sappiamo più stare.
Allora mi sentivo sempre più soffocare e i contesti che frequentavo non mi aiutavano a vivermi il negativo, era dura rimanere a galla, perché ero “sotto la media” per così dire, non “accettabile”, non “standard”.
Certo era anche un mio vissuto, io amplificavo molto le situazioni, stati d’animo, ma credo che l’ambiente esterno non favorisca.
Penso che la capacità di convivere col negativo si impari, si acquisti man mano che il grano matura e la zizzania diminuisce. È un’abilità che col tempo facciamo nostra. Personalmente quando ho iniziato a “comprendere” nella mia vita il negativo, ho fatto i conti con la realtà, cioè ho aperto gli occhi, mi sono disincantata, ho visto che, per crescere, dovevo accettare, prendere atto, capire che la realtà è dura, non idealizzare, che la vita è complessa, non ci sono solo due direzioni. E che dovevo anche ridimensionarmi, “scavare” in profondità, avere più risorse, perché la realtà è impegnativa ogni volta.
Allora bisogna diventare più forti, resistenti, fare un lavoro su di sé, trovare in sé le risposte, anche accettare e convivere con una realtà molto inconsistente, “scivolosa”, frammentata, che non dà certezze, non rassicura. È sempre incerta, un’incognita, non ci si può fidare, è ingannevole, informe, non ha nessun fondamento, sostanza, spesso è un teatrino.
C’è molta più indifferenza e meno voglia di comprendere, non riusciamo più a “sentirci”, ad avere buonsenso, siamo tutti più “ritirati”.
E così quello che non si comprende, che si distingue, è visto come una minaccia e non è solo il nero di turno, può essere un vestito, un taglio di capelli, un interesse….
Così abbracciare un bambino che ha bisogno è un’eresia, mentre riempirlo di psicofarmaci è “protocollo”. E questo non ci scandalizza!
Non contano i risultati, i frutti, ma il “setting”, seguire più i regolamenti e salvaguardare la “religione psichiatrica” che la vita di bambini che hanno bisogno, urgenza di vivere e non sprecare la propria vita tra corsie d’ospedali e ambulatori medici. Ma forse conta più non fermare l’industria farmacologica.
Col senno di poi dico che la zizzania serviva a crescere, cioè aveva la funzione di mettermi alla prova, anche di seguire strade diverse, di pensare “differente”, mi ha provato, temprato. Così gli ostacoli hanno un senso, perché diventano delle sfide, spostano il “paletto”, sono anche occasioni, banchi di prova, anche per sperimentare, andare in terre sconosciute, battere sentieri impervi, diversi.
Resistere non è facile, perché si è soli, perché non si ha consapevolezza, ci si spaventa e ci si scoraggia.
Bisognerebbe vederlo come un laboratorio di vita in cui hai modo di rivedere, ripensare, di stare con te stesso, ascoltarti, elaborare, stare in stand-by, per valutare, ricostruire, riformulare.
Invece il negativo lo esorcizziamo. Spesso c’è paura, delle angosce psicotiche che non vogliono vedere, che fanno di tutto per reprimere, negare ciò che esula da quello che si conosce. Si difendono a tutti i costi le proprie certezze, per non essere scomodati, perché “è così e basta”, perché si preferisce fare le cose sempre al solito modo.
Inoltre oggi i tempi sono molto accelerati, allora non si “valuta”, c’è una logica “binaria”, SI-NO, non ci sono mezze misure, vale solo ciò che rende, che è certo……..
Certo io penso che la sofferenza non sia mai invano, ha un senso, anche se al momento la viviamo come assoluta, come un “pugno nello stomaco”, però anche questa ci può insegnare, ci fortifica e magari poi ci fa intravedere cose migliori, più mature.
Ci vedo un certo bigottismo, avere i paraocchi, non valutare, soppesare, ma giudicare solo in base a precisi e rigidi parametri, “standard”, come se le regole, i diktat, fossero garanzia di “giustizia”, per non dover decidere, scegliere.
La regola ci vuole, però è fatta anche per essere infranta, cioè non è un assoluto, è stata stabilita dagli uomini, quindi non è detto che sia infallibile, eterna.
E poi la relazione non è qualcosa credo che si può studiare a tavolino, quindi ci possono essere tante variabili, è qualcosa di “dinamico”, con imprevisti, perché le emozioni non si possono “inquadrare”, controllare, sono sfuggenti, sono “al momento”, sono “attimi” da vivere e le possibilità sono infinite.
Io ho seguito trattamenti psicologici, tecniche di rilassamento, ma ritengo che non abbiano la stessa portata di una dinamica metastorica, che è molto più globale, abbraccia tutta la vita, che ti coinvolge in profondità, emotivamente, razionalmente, nell’ontologico e anche il corpo che non ha mai avuto una degna considerazione, quindi non è “asettica”, è molto più efficace, perché “smuove” di più, rimesta nel fondo, va lì dove c’è bisogno, dritto al cuore.
Per me uno scambio emotivo, una stretta di mano, la solidarietà, l’umanità, la sospensione del giudizio, riconoscere il tuo valore e dignità, non vederti come paziente, malato, ma risorsa, non come scarto, ma degna di merito, di attenzione, avere fiducia in te, “scommettere” su di te, crederci, insistere, valgono immensamente di più di mille teorie psicologiche, studi psichiatrici, manuali diagnostici e intrugli psicofarmacologici.
Proprio Padre Pio diceva che al malato bisogna portare amore, perché questo aiuta più di tutto, perché noi non siamo macchine, non “funzioniamo” secondo principi fissi, ma abbiamo qualcosa che va oltre, di metastorico, che non si può misurare, calcolare, che è infinito, non si può prevedere, non è programmabile, è insondabile, misterioso, sacro.
Per la mia esperienza so bene che, prima di conoscere voi, quando avevo bisogno, non ho trovato aiuti adeguati, qualcuno che davvero avesse interesse a farmi uscire dal mio pozzo di Vermicino, che capisse che bisognava intervenire in maniera urgente, tempestiva.
Spesso si rimane chiusi nella relazione medico-paziente, in maniera asimmetrica, restando oggetto di cura, studio e questo impedisce uno scambio emotivo. Ma sappiamo bene che, quando si ha più motivazione, si ha il sostegno, le dimostrazioni di affetto, uno si sente più incoraggiato, ha più voglia di fare, ha una marcia in più.
Specie nel disagio psicologico, in cui la persona è, per così dire “ovattata”, chiusa, una stretta di mano, un abbraccio, sono come dar da bere ad un assetato, un dono inestimabile, rimetterlo in contatto coi propri codici, farlo sentire ancora vivo. È come fare le carezze ad un malato terminale, sono cose sacre.
Approdare al Centro di Medicina Sociale di Foggia, per me è stata una benedizione, perché io ero precipitata molto in basso, dove è difficile che qualcuno ti veda, dove tu non esisti, sei diventata invisibile. E chi è così “coraggiosamente pazzo”, ha così amore da accogliere una sofferenza così estrema, da farsi carico in maniera globale di te, che sa andare oltre le apparenze e “leggerti dentro”, vedere perfettamente quello che sei interiormente, riconoscere aldilà di ogni previsione il tuo valore, mettersi sullo stesso piano tuo e non avere paura delle tue ombre, lati oscuri, accoglierli in pieno.
Questo lo può capire solo chi ci è passato, chi ha vissuto sulla propria pelle il senso di fallimento ed impotenza, chi ha conosciuto il senso di distruzione, la solitudine più feroce, quando devi fare i conti con un’angoscia di morte “assoluta”, cosmica, indicibile.
Non diamo per scontato, perché sappiamo bene che ci sono tanti che restano disagiati a vita o si suicidano, perché le strutture oggi non riescono a fornire adeguata assistenza e interventi, perché non sono in grado di “dare un nome” a questo disagio, brancolano nel buio. Occorre stare dentro le situazioni per parlare, perché se no parliamo solo per sentito dire o in base a maldicenze infondate.
Penso che, in questi casi, non ci possano essere regole rigide, ma bisogna farsi guidare dal proprio sentire, soprattutto in base al proprio sapere emotivo, al proprio “patuto”, perché se le pratiche psicologiche non si “animano”, non vengono “riempite”, non si “colorano”, non credo possano essere molto efficaci, diventano fini a sé, pure tecniche, e noi non stiamo facendo esperimenti scientifici, ma cerchiamo di ridare speranza, aiutare la vita.
Per aiutare, per capire il dolore degli altri, bisogna prima aver attraversato il proprio, dobbiamo dargli qualcosa di noi, “sporcarci”, fare un crossing-over, perché così nasce qualcosa, se c’è uno scambio, non se siamo solo esecutori, se dobbiamo ricoprire un ruolo, fare un’osservazione clinica, un’indagine al microscopio.
Mentre poi si chiudono gli occhi sul fatto che le persone stanno anni in trattamento con psicofarmaci, si cronicizzano, non fanno alcun cambiamento, miglioramento, anzi sprofondano ancora di più. È assurdo!
Le regole non servono a niente se non prendono vita, se poi non le si fanno proprie, non le si umanizzano, se non diventano mezzi e non fini, se non si piegano al senso morale, alla giustizia, ad una “regola pratica”, al Bene, ad un reale interesse per la vita altrui, se non si concretizzano.
Sono le eccezioni che fanno le regole e non viceversa.
Perché quando si tratta di rapporti umani non c’è niente di certo e di già dato, bisogna creare, plasmare, essere artigiani, non ingegneri, “artisti”, non burocrati.
La professione allora deve essere una continua ricerca perché poi i principi vanno applicati, verificati, anche migliorati, approfonditi, arricchiti dall’esperienza, incarnati, per cui è il professionista che si deve mettere al servizio del paziente, il suo sapere deve essere uno strumento, un tramite.
La professione è anche saper convivere con la zizzania, resistere, saper aspettare, far maturare, affrontare anche momenti negativi, difendere i propri principi, lottare per ciò che si ritiene giusto, lavorare pensando sempre al raccolto, in previsione, vedere più le spighe che la zizzania, non agli imprevisti , alla grandine, nebbia, insetti, uccelli, ma a ciò che ci fa andare avanti, sperare, la gioia per quello che sarà, il premio, ciò che cresce, non ciò che secca, il risultato, il frutto del lavoro.
Si prova a piantare dei semi, però poi c’è l’esterno con cui bisogna fare i conti e le innovazioni storicamente sono sempre avversate, non accolte.
Penso che la nostra formazione ci spinga anche a trovare altre strade, a vedere le cose da altre prospettive, punti di vista, a saper “circolare”, quindi vivere il negativo, ma poi anche risalire, esprimere la vita e poi immergerci, “affondare”, per andare in profondità a ripescare la nostra parte più fusionale, l’oceano interiore che poi ci permette di “costruire la realtà”, anche di reinventarla, rinnovarla, perché dentro di noi abbiamo tutto quello che ci serve, un potere infinito.
Il Padrone è saggio, perché d’istinto avrebbe potuto tagliare la zizzania, che sembra la cosa più ovvia da fare. Ma lui è provvidente, perché non si ferma al tempo-spazio, a interventi nel presente che magari possono creare danno. Per non perdere tutto preferisce attendere, non sceglie la fretta, ma la lentezza, ciò che si realizza nel tempo, ha fede, pazienza, è instancabile, irremovibile, è fermo.
Io proverei ad “addolcire” anche questo direttore, perché credo che ne beneficerebbe anche lui e gli farei raccontare dai bambini e dai genitori quello che hanno vissuto, i miglioramenti, perché penso che, più delle parole, contino i fatti e le emozioni che sono poi quelle che “fanno centro”, fanno sciogliere anche i cuori induriti. Queste testimonianze dirette, anche se non risolvono, possono far riflettere, insinuare dubbi, e, comunque sono piccoli passi, tentativi, a volte è importante anche qualcosa di simbolico.
Celeste