Corso Maestrepolo, rubrica PASQUALINA: I PERCHE’ DELL’ESISTENZA. Perché si diventa timidi? Domanda di Mara, riscontro di Paolo

Perché si diventa timidi?

Partiamo da che vuol dire timido: aver paura, titubanza che viene da riverenza.

Timido        Riverire

E’ piacevole leggere dalla domanda che si ipotizza che in origine non siamo timidi, e l’etimologia della parola mostra come la timidezza sia la legata alla paura di non sentirsi adeguati, all’altezza.

Ripensando alla mia esperienza, mi sentivo timido e mentre ora la timidezza si è ridotta moltissimo. Ancora, sento il giudizio delle persone che mi stanno di fronte. Penso che quello che dico o addirittura penso non sia giusto, che quello che faccio non è all’altezza, che chiunque altro possa fare, pensare cose migliori. E’ possibile, certamente, ma questo non deve mettere in discussione il mio valore, le mie capacità, il mio voler gioire di quello che solo io già sono, non può influire sul piacere di vivere, sperimentare, esistere.

Ricordo che da piccolo non ero timido, anzi grazie alla non conformità dei miei genitori e all’abitare in aperta campagna, ho potuto godere della libertà di fare, meno la libertà di essere, esprimere, godere e festeggiare quello che siamo. I nonni che abitavano nel piano di sopra erano tanto disponibili e generosi nel fare, quanto duri poi nell’accogliere, nel dar valore alla capacità di esprimere i propri pensieri, le proprie emozioni. Le tensioni che le famiglie di origine avevano rispetto alla coppia dei miei genitori erano palesi, fondate sul nulla, ma visibili, punitive quanto nelle occasioni delle feste comandate (Natale, Pasqua e i compleanni) venivano sospese per il tempo dei pranzi, nei quali non perdeva occasione di lanciare qualche frecciatina. L’educazione che ho ricevuto non ha tenuto conto della mia sensibilità, del mio respirare questo clima di ambiguità. Tanti parenti li ho sentiti pronti a dare buoni consigli e poi disattenderli, parlare di volersi bene nel gelo di relazioni occasionali. Studiare era la cosa che dicevano tutti. Poco piacere, divertimento e festa. Si giocava quando si stava male, tutto il resto del tempo genitori e nonni lavoravano e basta. Non c’era spazio per il dialogo in famiglia, per l’apprezzamento anche di piccoli gesti.

Tutto era scontato, tutto lo si poteva fare meglio, ma soprattutto quello che facevamo non era visto come un importante momento di sperimentazione e crescita, ma un occupare il tempo per far riposare i genitori stanchi del lavoro e presi dalle preoccupazioni.

Tra i tanti momenti che mi hanno portato a pensare che quello che pensavo fosse sbagliato c’è nonna Maria: ricordo che una primavera-estate la cercavo per stare un po’ con lei, giocare a carte, lei invece voleva prendere il sole nuda in terrazzo, per me non era un problema, ma per lei sì, quindi mi cacciava dandomi del porco. Onestamente ancora oggi mi chiedo quale sia la paura nel mostrare il proprio corpo per quello che è, tutto sommato siamo nati nudi e non vi è una enorme differenza tra uomini e tra donne.

Altro ricordo in cui ho sentito crescere la mia timidezza, quindi la paura di fare, in quanto il mio mettermi in mostra non era interessante, bensì inappropriato, inutile e una perdita di tempo per chi mi guardava, fu durante un momento di gioco. Stavamo facendo degli spettacolini tra cugini nella casa storica di nonna Amelia, durante una cena di famiglia. Di questo gioco già complesso perché ero l’unico maschio di quattro cugini, mia cugina Cristina, molto attiva e creativa, si dava un sacco da fare e ci diceva cosa e come fare le scenette incurante di quello che facevano, dicevano ed esprimevano i grandi. In questo contesto già mi sentivo poco adeguato, per cui ci sarebbe molto da scavare e molto know-how da fare, ricordo zio Mariano che ci disse qualcosa come “Basta a disturbarci, stiamo facendo cose importanti, giocate da soli.”. Lui era preso da vicende familiari, sicuramente soldi, e in particolare da un contrasto con mio padre. Non so se qualcuno prese le nostre difese, ma ad ogni modo, sentii forte il giudizio che quello che stavamo facendo fosse completamente inutile, sbagliato. Lo sentii molto legato a me, che già a disagio perché l’unico maschio, circondato da cugine, e zie. Con a disposizione solo i vestiti di zia Gabriella. Gli zii, in primis Mariano, erano poco presenti, se non in rarissime occasioni e anche in quelle pronti a dire: “No, fai così, fai cosà…”.

A tutti costoro sento di dedicare la canzone di Guccini Cyrano, e sottolineare che le parole possono ferire più di una spada.

Mi impegno anche oggi, ad ascoltare il mio stato quiete, per cercare di evitare di scaricare su altri le mie rabbie, i miei malesseri che invece posso comunicare direttamente con chiarezza. Mi impegno a stare nell’esistenza con il piacere, e con la convinzione che il negativo sia un holding, un opportunità per crescere!

Grazie Mara per la domanda e per avermi fatto rivivere questi momenti molto profondi che probabilmente ancora alimentano rabbia e svalutazione.

Sursum corda!

Paolo

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