Corso Maestrepolo, rubrica PASQUALINA: I PERCHE’ DELL’ESISTENZA. Perché si diventa timidi? Domanda di Mara, riscontro di Celeste
Perché si diventa timidi?
Il termine timido mi fa pensare alla mancanza di coraggio, infatti viene dal latino “timidus”, “timere”, cioè “avere paura, temere”.
La persona timida assume un atteggiamento insicuro, ha un modo di parlare e di fare incerto, sta sempre sul chi va là, è sospettoso, cioè non affronta le situazioni con scioltezza, è impacciato, ha sempre dubbi, non si butta, tentenna.
E’ un po’ “sospesa”, non è decisa, perché la sua paura la blocca di fronte ai pericoli, ai rischi, diciamo che “vive a metà”, ha una parvenza di vita, guarda da dietro un vetro.
Sono diventata timida perché non mi potevo esprimere per quella che ero, credo ci fosse una dissonanza tra i miei desideri e la realtà. La timidezza è come un blocco che impedisce di fluire, è anche una difesa, una maschera per nascondere e camuffare la contraddizione che ci viviamo internamente, per non mostrare la nostra sofferenza, per non essere troppo esposti, per non far trasparire delle verità che ci fanno male, che ci minacciano, che minano la nostra vita. In fondo temiamo la distruzione, la morte, di essere annientati.
Mi devo chiudere perché mi sento “sotto esame”, messo in discussione, quindi devo essere cauto, stare attento perché potrebbero ferirmi, offendere, perché se mi scopro posso “dare fastidio”, do più nell’occhio. E’ anche una strategia di sopravvivenza, per evitare certe situazioni, anche per evitare il peggio.
La parola timido la associo anche a pallido, pallore, per cui, quando la nostra vita non riesce più a “circolare”, quando dei trombi bloccano la nostra fusionalità, noi appariamo “scoloriti”, non nitidi.
Io ero timida perché non mi potevo vivere appieno, soprattutto non potevo accettarmi serenamente, dovevo prendere le distanze e dubitare di me, “prendermi con le pinze”. Erano crollate le fondamenta, la fiducia nel mio essere.
Come faccio ad affrontare il mondo se io non so chi sono, se il mio piede vacilla, se non ho equilibrio?
Allora avrò sempre le vertigini, sarò timorosa, avrò il fiato sospeso, perché respirare soltanto non mi basta, sarò sempre “dislocata”, dovrò sempre dimostrare. Non potrò semplicemente essere secondo la mia natura, stare nel letto del mio fiume, vivrò in ansia, mi arrampicherò sugli specchi, sarò sempre alla ricerca, mi vedrò sempre bisognosa, “orfana”, sarò confusa, piena di domande, mi tormenterò. Come quando uno subisce un trauma e poi ha sempre paura di cadere. Come la Mela Gimagiona che sta sull’albero, ma è stanca, perché è in una posizione statica, sembra apparentemente che non le manchi nulla, ma ha il desiderio di altro, qualcosa dall’esterno la richiama. E, quando cade, si apre, si spacca in due per andare più in profondità e cammina, anche se non sa dove è diretta, anche se c’è vento è attratta come da una forza, un istinto.
Attraverso la timidezza io dicevo: “Attenti a quello che fate”, “Maneggiare con cautela”, perché temevo di rivivere emozioni spiacevoli, negative e umilianti.
Era poi un modo per non far vedere le mie emozioni, celare le fragilità, le debolezze, uno scudo per parare i colpi, per non far vedere che stavo male.
Se gli altri sono prevenuti nei tuoi confronti e guardano solo il tuo 8%, va a finire che anche tu identifichi con quello e non riesci a vedere il resto.
Lo sguardo degli altri ci “fissa”, può essere un giudizio che ci cristallizza, ci trasforma in statue di sale.
Timidi si diventa anche quando si subiscono comportamenti troppo severi, rigidi, quando siamo costretti a sottometterci, piegarci, quando non possiamo dire no, dobbiamo avere reverenza, ci fanno capire che possiamo essere solo discepoli, possiamo solo imparare… Dobbiamo ammettere la nostra inferiorità, arrenderci di fronte a chi è chiuso nelle sue certezze. Allora ci sentiamo offesi soprattutto perché ci sembra ingiusto.
Mi ricordo che i miei parenti, e non solo, avevano sempre da ridire su di me, come se vedessero sempre e solo i miei limiti, difficoltà. Erano molto scoraggiati e questo lo trasmettevano, magari volevano aiutarmi, ma io vivevo molto il loro senso di sfiducia, sconfitta, pessimismo. Credo che loro avessero difficoltà a viversi il negativo, la morte, volevano esorcizzarli, quindi pasticciavano, erano maldestri, maschili, indelicati, si incartavano.
Un cugino di mio padre, di Foggia, quando veniva a casa e vedeva che mi intimidivo diceva sghignazzando: “E’ ummaros (mette il broncio)!”, e io ci rimanevo malissimo.
Certo la timidezza è un ostacolo nella vita, è come avere il freno a mano, perché spesso nelle cose conta più l’approccio.
Ad un esame universitario di filosofia, la docente, dopo avermi ascoltato, mi riprese dicendomi che ero un po’ timida e questo mi fece riflettere.
Celeste