Corso Maestrepolo, rubrica PASQUALINA: I PERCHE’ DELL’ESISTENZA. Perché l’allattamento… domanda di Elisa, riscontro di Gabriella

disegno di Monica Glorio

 

 

Perché l’allattamento al seno, pur essendo un atto di nutrimento che consente la crescita di un essere umano e quindi della specie, un atto che dovrebbe essere semplice, istintivo e facile, è invece in molti casi per le donne doloroso e anche talvolta dà origine a infezioni (es. mastiti), malesseri, etc.?

 

 

Cara Maestrepola Elisa,
mi piace molto questa tua domanda perché toglie un velo su una fase della relazione madre – neonato
ritenuta, nell’opinione comune, idilliaca ed invece, per quella che è stata la mia esperienza, molto delicata e
complessa, seppure fondamentale nel passaggio dall’essere mamma, nutrice dotata di mammella per
sfamare i bisogni primari, all’essere madre con una visione più globale dei bisogni legati alla crescita di un
figlio/a.
Per quanto mi riguarda, sono arrivata all’allattamento convinta di avere una teoria solida alle spalle,
venivo da un percorso già pluriennale all’interno del Progetto Nuova Specie, con ben due corsi di
Quadrimensionalismo, che ritengo ancora come la teoria illuminante per comprendere i meccanismi alla
base di tutte le relazioni. Nel secondo corso che avevo seguito, c’era stata anche una dinamica di
allattamento che aveva abbastanza turbato tutti noi corsisti perché avevamo incredibilmente visto sul
campo come anche una persona adulta, dietro la maschera di donna forte ed indipendente, nascondeva un
bisogno così naturale e primordiale come quello dell’allattamento.
Fu proprio in quella occasione che cominciai ad interrogarmi sui miei bisogni e sul perché facevo
così difficoltà ad esprimerli, iniziò così un percorso di grande lavoro interiore sulla relazione profonda con
mia madre che, tra l’altro, non era stata allattata da sua madre, ma da una “madre di latte”. È con questo
bagaglio che sono arrivata a mia figlia e all’allattamento, con l’aggiunta di una bella svalutazione legata al
fatto di avere un seno piccolo che, secondo me, non poteva permettermi di nutrirla.
Ho attaccato per la prima volta mia figlia al seno alle due di notte. Dopo il parto naturale,
fortemente voluto dal mio ginecologo nonostante i miei quarantadue anni, non ero riuscita ad espellere la
placenta, evidentemente volevo ancora trattenere qualcosa dentro di me di quella esperienza meravigliosa
che era stata la gravidanza. Ho dovuto quindi subire un piccolo intervento con anestesia, al risveglio ho
trovato mia figlia in stanza che mi aspettava. È iniziato in quel momento un periodo di grande fatica e di
novità per me.
Io che vengo da un mondo dove la parola d’ordine è “produttività”, improvvisamente mi sono
trovata ad ubbidire ai tempi di mia figlia, che mi reclamava con forza, e ad imparare a lasciare fuori di me il
tempo – spazio. Io che non chiedo mai nulla per non dar fastidio e cerco di passare inosservata,
improvvisamente mi sono ritrovata con un fagottino che, alla terza notte in ospedale, ha tenuto svegli tutti
fino al mio sfinimento. Io che facevo fatica a selezionare i miei bisogni (e ancora un po’ è così), ho imparato
finalmente da lei a leggere anche i bisogni miei. Io che non ho mai amato essere invasa, ho imparato
finalmente a lasciarmi invadere comprendendo che invasione non è necessariamente sinonimo di pericolo.
Tutto questo continuo lavoro con lei, senza sentire accanto una funzione madre per me di cui avrei
avuto tanto bisogno in quel periodo, ha fatto sì che manifestassi ragadi al seno e perdita di capelli.
La mia ambivalenza, in quel periodo, è stata forte: se da un lato ringraziavo la teoria perché mi dava
il senso di quello che stavo vivendo e rappresentava il palo a cui legarmi per non sprofondare, dall’altro mi
sembrava di vedere troppo e, anzi, mi sentivo in colpa per ogni mio atteggiamento che sapevo avrebbe
potuto influire sulla sana crescita di mia figlia.
Tutte le persone che si avvicinavano a me le vedevo come tanti uccellini con la bocca aperta, in
attesa di nutrimento, ma io a malapena riuscivo a sfamare mia figlia e così, piuttosto che affidarmi alla
rrrete, per quanto bucherellata fosse, preferii rinchiudermi … la verità era che io non ero abituata ad usare
le due “gambe”, teoria e prassi, insieme.
Mia figlia aveva sfondato una membrana molto spessa e mi aveva avvicinato a quel 92% di me
stessa che facevo fatica a ricontattare, i miei FUK erano esplosi ma io imputavo all’allattamento il sentirmi
svuotata di energie.
Oggi sento di ringraziare mia figlia Gaia per la determinazione che ha avuto nel tirare latte da un
seno piccolo come il mio, mi ha dimostrato che quello che sembra non è ed io ho potuto allattarla fino ai
suoi undici mesi. Grazie a lei, ho dovuto fare tanti salti precipiziali, tutti quelli che fino a quel momento
avevo rimandato. Ma sento di ringraziare anche Mariano e la sua preziosa teoria dell’insieme Madre –
Neonato, ogni volta che cadevo in crisi, il principio della madre “sufficientemente buona” mi faceva rialzare
e riprendere a camminare.
E allora, Elisa, alla tua domanda io rispondo che l’allattamento non è un atto semplice, ma è un atto
complesso nel senso etimologico del termine, con tante pieghe, tutte quelle delle matrioske familiari che
noi donne ci portiamo dietro e che non abbiamo ben sciolto prima, ma è anche un grande dono che la
natura ci ha fatto perché l’esperienza di fusionalità che una madre ed un figlio/a provano nel guardarsi
negli occhi durante l’allattamento difficilmente si potrà dimenticare, anche con le ragadi, le mastiti, la
perdita di capelli e le bilance che ti tolgono l’anima!

Gabriella 

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