“Cara mamma, ora posso scegliere cosa far vivere di te dentro di me”
Osimo, 30 luglio 2020
Casa del commiato: Sala della speranza
Cara mamma,
Non a caso riposi in pace nella sala della speranza, proprio tu che di speranza per la tua vita non ne hai avuta; difatti la notte del 29 luglio 2020 hai deciso di dire basta alla tua presenza nell’arena esistenziale e di cercare altrove una pace mai avuta in terra. Non ricordo ninne nanne cantate da te, favole raccontate ai piedi del letto, o coccole fusionali. Il mio corpo ha vissuto il desiderio di una carezza al posto di una botta, di un bacio piuttosto che di un’inutile sgridata, di un complimento al posto di un giudizio. Tutto ciò di cui avevo bisogno si trasformava in una lunga ciucciata di pollice, un surrogato consolatore che mi ha accompagnato fino all’età di sette anni. Specialmente da piccola, mi vergognavo di te, della tua schiettezza fredda, del tuo essere distante da tutto e da tutti. Eppure eri sensibile e intuitiva, ma aggiungevi sempre quel pugno di negativo che era sale della vita per te. Non hai amato e non mi hai insegnato ad amare le cose semplici della vita, non hai amato te stessa né tuo marito né me, hai forse visto un po’ di luce con la nascita di tua nipote. Ci hai voluto bene a modo tuo, ma non è uguale ad amare. Hai deciso di volare dalle mura, perché nella tua vita avresti tanto voluto prendere il volo, fare un salto, ma non ci sei riuscita, non hai potuto e tanto meno voluto.
Ti eri creata una scorza talmente dura che nessuno riusciva a scalfire, pur usando tante strategie, la più forte eri tu. Una forza in negativo, direi anche ossessiva perché quando volevi una cosa la ottenevi stressando all’inverosimile, goccia dopo goccia. Hai vissuto per tantissimi anni senza una rete di relazioni, hai resistito tanto ma hai anche fatto vincere la morte. A che serve dimostrare che non hai bisogno di nessuno se alla fine non hai neanche più bisogno di te stessa? Il tuo potenziale è stato sempre più imprigionato dagli psicofarmaci che per più di quarantacinque anni hai preso. Ti ho visto spegnerti sempre più col passare degli anni: per assurdo quando vivevi con la rabbia, avevi una tua energia, anche se negativa, poi piano piano con gli anni ti ho visto sempre più sopra il letto: il pomeriggio, la sera… il letto era già la tua tomba di una morte interiore che trascinava dentro tutti noi.
La mia vita è stata sempre condizionata dal tuo star male, non ho vissuto mai e ripeto mai tranquilla: da bambina credevo alle tue parole che dicevano che saresti morta, da grande ho temuto i tuoi inutili ricoveri dal grande stress per me che ti assistevo. Io posso aver fallito con te, ci ho provato in tanti modi ma sono anche tua figlia e tanti meccanismi tuoi, tante parti tue che hai fatto morire, hai voluto che anche io le facessi morire. Nemmeno i medici sono riusciti però, ricordo il neurologo P. di Ancona che sventolava auto-celebrazioni perché dopo un ricovero stavi meglio ed io gli chiesi: quanto durerà? Un mese? Sembrava quasi che si fosse offeso ma poi invece si è arreso perché ha detto di non volerti più vedere, perché naturalmente eri più potente di chi pensava di esserlo tramite i farmaci. Ringrazio comunque il personale medico che ha cercato di aiutarti anche se con un risultato fallimentare e soprattutto senza chiedersi come una figlia potesse vivere con una madre così problematica. Io ho trovato una strada, un percorso per me buono, anche se forse troppo tardi per aiutarti, perché ti eri troppo cristallizzata e chiusa nella tua autarchia.
Il dolore non può essere definito come malattia, il dolore è dolore: avevi un vissuto pesante, tuo padre era stato in manicomio pur essendo carabiniere. Se si andasse a ricostruire la tua storia, emergerebbero tanti aspetti che hanno creato dolore. Il dolore fa parte della vita e della crescita se accompagnato da dinamiche metastoriche e dalla teoria, altrimenti diventa F.U.K., attorcigliamenti che fermano il viaggio della vita. Sei riuscita a mantenere una sorta di equilibrio con l’esterno, non hai mai fatto cose eclatanti al punto da fare i TSO: i ricoveri sceglievi tu quando farli e se ti veniva chiesto di frequentare i laboratori del centro diurno, per esempio, te ne andavi e facevi come dicevi tu. Sei stata una donna intelligente, coglievi tante cose nonostante i momenti di rintontimento dovutI ai farmaci che ormai prendevi come caramelle. Non hai scelto di morire con loro, nel senso che non hai voluto dare il tuo ultimo respiro tramite una superdose di psicofarmaci, ma hai voluto fare un atto estremo, perché per lanciarsi da 12 metri, ci vuole coraggio: hai scelto di fare un salto quantico precipiziale da esilio, liberatorio dell’obbligo-dovere di vivere, perché per te vivere era un dovere e non è mai stato un piacere. Un dovere per chi? Avevi concluso da un bel pezzo la tua mission sulla terra, non circolinfava più nulla dentro di te, il tuo controllo verso l’esterno non aveva più presa su nessuno se non su mio padre che ha continuato a farti il servetto per paura che morissi… E alla fine sei morta lo stesso. Non era meglio se mio padre tirava fuori un po’ di maschile e ti regolamentava di più? Non mi metto a pensare ai se e ai ma perché non servirebbero: sinceramente penso che finalmente ti sia liberata di tanto dolore che gli psicofarmaci non riuscivano più a contenere vista la forte assuefazione. Io avevo fatto strada ma tu mi vedevi sempre più “irraggiungibile”, solo negli ultimi periodi hai iniziato a riconoscermi di più o perlomeno mi dicevi: “Te ce l’hai fatta”.
Osimo, mercoledì 5 agosto 2020
È trascorsa una settimana esatta dal tuo suicidio. Oggi è una giornata difficile perché sento tanta rabbia: è vero che ce l’ho fatta, però non bisognerebbe fermarsi al pi greco, ma vedere anche tutto il beta gamma che ho percorso. Io innanzitutto il beta gamma me lo ricordo bene, eccome se me lo ricordo, l’ho percorso senza di te cara mamma, che figurati se potevi accompagnarmi. Anzi hai sempre cercato di ostacolarmi, di tirarmi dentro il tuo pozzo di Vermicino.
Mi sto vivendo la rabbia, perché il tuo abbandono di oggi in realtà è un abbandono di una vita, non mi hai dato fiducia né riconoscimento. I gesti rivolti a te non bastavano mai o non andavano mai bene, perché in realtà i tuoi veri bisogni non erano quelli che facevi vedere, tu stessa eri la prima ad ingannarti. Non mi hai vista come figlia, ma come estranea nemica rispetto ai tuoi nuclei psicotici, perché ti mettevo continuamente in crisi, soprattutto da piccola. Non mi sono sentita voluta bene per quello che solo io già sono, né mi sono sentita libera di poter essere quello che volevo essere, perché ho dovuto essere quello che dovevo essere. Perché avevo paura del tuo star male, del tuo dire muoio, del tuo dire non ce la faccio più.
Oggi questa paura non c’è più perché quello che hai minacciato di fare per tanti anni, lo hai compiuto. Se sento un’ambulanza passare non ho più paura che sia per te, la mia vita non è più in funzione al tuo dolore, ma (spero) alla mia felicità che dopo tutti questi anni mi merito anch’io di vivere. L’altro giorno ho provato a pensare alle tue parti positive, non me ne sono venute in mente molte: ho visto più un positivo di te come persona se fossi stata aiutata a rielaborare, ma rispetto alla relazione con me, di positivo ne ho visto poco e legato a obblighi doveri. Mi ha telefonato un’amica d’infanzia e parlando mi ha raccontato che quando lei aveva sei anni ed io tre e mezzo, aveva paura di venire a casa nostra perché ti vedeva sempre seria e al buio, poi si è abituata ed ha iniziato a venire lo stesso. Mi sono sentita inadeguata a te mamma, ma anche all’esterno, qualsiasi cosa facessi, non andava bene, la mia insicurezza, la mia svalutazione ha condizionato troppo la mia vita. Nel biglietto che hai lasciato quando ti sei buttata nel vuoto hai scritto “perdonatemi, non ce la faccio più a soffrire”. Ti avevo già perdonata e lo sentivi, forse la rabbia che sento oggi è quella di averti dato grandi fette della mia vita e in cambio sento che mi hai dato questo dolore. La tua morte sta liberando tante emozioni, ha sfondato tutti i miei codici, sto distinguendo di più i miei meccanismi “ereditati” da te come debito originario.
Osimo, giovedì 6 agosto 2020
Oggi è stata una giornata decisiva, anzi una nottata decisiva. Ho capito delle cose che voglio scrivere, anche se potrebbero sembrare un delirio. Stanotte ho capito che mia madre in questi giorni ha voluto farmi vivere tutte le sue emozioni iniziando dalla disperazione, alla rabbia e alla mancanza di un punto mitotico ontologico che l’ha portata al gesto impulsivo. Nel tardo pomeriggio una signora che mi conosce da quando avevo due anni, mi ha detto di lasciar andare mia madre. Durante la notte non dormivo, ho capito che ancora una volta era mia madre che non lasciava andare me. Tutte quelle sensazioni che ho provato erano di mia madre e non solo le mie, come se lei avesse voluto farmi attraversare tutto quello che lei viveva per farmi comprendere e perdonare il suo suicidio. Io ho compreso la sua disperazione, che ho vissuto anch’io, ho compreso la sua rabbia, che negli anni ho anche subito, ho compreso il suo dire basta, limitato e concluso.
Giovedì notte mi sono spaventata, ho riattraversato quello che penso abbia vissuto mia madre la notte del suicidio: mi sveglio dopo poche ore di sonno, non riesco a riaddormentarmi, la rabbia mi tormenta e nemmeno il letto riesce a fare holding a un corpo che non trova loco. A questo punto anche il letto pur essendo stato un rifugio confortevole per tanto tempo, diventa un letto di Procuste. I pensieri corrono: prendo la macchina e faccio un giro, vado al mare, alle mura di Piazza Nuova. La rabbia diventa pulsante e non guarda in faccia a nessuno, il cuore è senza emozioni e batte come denti nel bel mezzo di un freddo invernale. La rabbia spinge, non c’è calma per quello che da anni tormenta, è ora di dire basta, niente ha più senso, nemmeno una figlia, una nipote, un marito.
Mi sono spaventata e ho cercato il mio punto mitotico che è stato quello di rimanere incollata al letto perché non capivo più se quello che stavo vivendo fosse il mio vissuto o quello di mia madre, non trovavo più i confini. Mia madre mi ha fatto ripercorrere tutto quello che lei ha attraversato in questi anni, fino ad arrivare al gesto ultimo estremo. Ho intuito che l’ha fatto per farmi capire e perdonare ma a un certo punto ho avvertito che era lei che non mi lasciava andare: aveva bisogno di farmi comprendere per liberarsi dai sensi di colpa e per aver creato così tanto dolore. Ancora una volta aveva bisogno, anche all’ultimo, di un appoggio mio perché lei ancora era sospesa tra la sua storia e metastoria.
Durante la notte ho dovuto tirar fuori il mio maschile, darle “l’ultima sculacciata” dicendole che lei aveva preso una decisione, che rispettavo e comprendevo, ma che andava portata fino in fondo, era troppo tardi per farsi fermare dalle paure. Comprendo la decisione, ma sentire le incertezze mi fa tornare al senex, cara mamma hai deciso? Fallo fino in fondo, seriamente! L’ho spinta a lasciarmi definitivamente, a liberarci dell’entanglement ognuna dell’altra, la strada scelta è quella della G.U.K, quindi l’ho spinta a fidarsi, ad andare dove forse poteva sentirsi finalmente figlia di una gravidanza dell’In.Di.Co.
Ho sentito ancora una volta la tua paura, la paura di fare il passaggio alla G.U.K, ti è servita la mia spinta, diciamo il mio calcio in culo, quello in fin di bene, perché entrambe non potevamo rimanere ancora sospese così. È stato il nostro ultimo saluto, finalmente penso che anche tu avrai capito le mie spinte, i passaggi difficili che ho attraversato, il valore della sudata distinzione da te, il valore del percorso Nuova Specie che mi ha dato, in questi anni, gli strumenti per spezzare le catene e guardare lo juvenis. Quando finalmente ti ho cacciata per mandarti a “vaffanG.U.K”, ho visto la rappresentazione di una luce che piano piano si faceva spazio riducendo il buio, e tu che andavi… E io piano piano mi sono addormentata. Questa luce la voglio collegare a questa foto del tramonto che si vede dal punto dove hai deciso di volare, come non hai fatto mai nella tua vita, pur avendo le ali ma credendo di essere pollo.
Cara mamma,
Quanto potenziale avresti potuto esprimere se non ti fossi fermata ai tuoi debiti, anche tu potevi essere una co-creatrice se tagliavi le tue catene, tante belle parti potevi esternare, ma non hai potuto né voluto. Ti voglio bene lo stesso perché i tuoi limiti sono stati i miei salti quantici precipiziali; le tue mancanze, le mie ricerche; il tuo maschile, il mio femminile; il tuo suicidio, la mia vita.
Ora da presenza fuori sei diventata presenza dentro, ora posso scegliere cosa far vivere di te dentro di me e cosa far morire assieme alla tua carne: so che pur non sapendo amare te stessa, in qualche modo forse hai provato ad amare me. Potevi essere più buona con me, proverò io a esserlo di più con te, provando ad esprimere quello che si libererà dallo scioglimento del nostro entanglement.
Addio mamma,
Tua figlia Monica.
1 Commento/i
Benedetta
Cara sorella mia,
la morte di Pasqualina e il tuo dolore-attraversamento di questi giorni mi hanno riportato anche ad un mio dolore antico. Stare con te in questi giorni e attraversare è stato come fare vita e conoscenza insieme.
Ti ringrazio per questa condivisione profonda e vera… Ora puoi volare nel tuo spettacolo-splendore ed io sarò qui con te a goderne.
Ti voglio infinitamente bene.
Bene.