“Avevo vinto, sì! Ma io non avrei voluto proprio combattere”. Dai diari adolescenziali di Anna Maria.
L’adolescenza erutta come un vulcano,
perchè è una delle fasi più caotiche, più vulcaniche.
L’adolescenza non è solo un periodo della nostra esistenza,
ma è un meccanismo perenne della vita.
Significa avere parti di sé che vogliono andare avanti,
in transizione, in viaggio.
(M. Loiacono)
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– “Aquila Consacrante” di Michela Garbati – |
Una domenica avevo deciso di andare al cinema con i miei amici e il mio ragazzo, ma di nuovo mio padre non mi voleva far uscire.
I miei amici mi aspettavano all’angolo di casa, mentre io litigavo con lui. Poi una mia amica venne a suonare il campanello, e mio padre, affacciandosi alla finestra, urlò dicendo che dovevano dimenticarsi di me e cancellare la via di casa mia.
A me disse che, se proprio volevo uscire, lo potevo fare con lui e che, visto che mi vergognavo di uscire con i miei genitori, lui avrebbe camminato dieci passi dietro di me.
Io mi rifiutai, e quando vide che era impotente con le parole, iniziò a picchiarmi selvaggiamente… schiaffi, calci e pugni… quando caddi per terra, per chiudere, mi sputò in faccia e se ne andò insieme a mia madre.
Mi aveva picchiata tante volte, ma la cosa che più mi fece male è stato il fatto di avermi sputato… per me è la cosa più dispregiativa che si possa fare ad una persona.
In quel momento decisi che era proprio finita, che non c’era possibilità di dialogo, e per la seconda volta andai via di casa senza prendere nulla, ma con la certezza che non ci sarei più tornata.
Di quella sera mi ricordo che mia sorella piangeva spaventata e mi chiedeva di non andarmene, ma io non l’ascoltavo… non ho pensato che sarebbe rimasta sola e che al rientro avrebbe dovuto dire ai miei che ero andata via…
Pensavo solo che dovevo andare via altrimenti sarei impazzita.
Raggiunsi i miei amici e il mio ragazzo al cinema, e al termine del film, quando dissi a tutti che a casa non sarei tornata, si spaventarono anche loro… ma non mi avrebbe convinta nessuno a tornare… potevo andare anche a dormire in stazione.
Poi mi offrì ospitalità un’amica, il cui papà però volle che avvisassi i miei, per cui chiamai una vicina (nemmeno il telefono avevamo a casa, perché per mio padre era un lusso per persone superficiali) e feci dire che ero al sicuro e che comunque non mi dovevano cercare.
Quella notte sono stata tutto il tempo a guardare i numeri rossi della radio sveglia che indicavano le ore.
Avevo paura ma ero decisa.
Dopo qualche giorno, casualmente incontrai un mio cugino che, vedendo che ero irremovibile nel non voler tornare a casa, mi invitò a stare da lui con i miei zii. Rimasi loro ospite per più di un mese. Un giorno venne mia madre per convincermi a tornare, e io le dissi che se gli zii non mi volevano più io avrei cercato un’altra soluzione, ma a casa non sarei tornata… a meno che non fosse venuto mio padre a parlare con me.
Io volevo che lui venisse e che trovassimo un compromesso.
Non volevo avere massima libertà, volevo avere il permesso di uscire in giorni prestabiliti e orari prestabiliti e volevo rispettarli.
Non volevo più vivere nell’ansia di dover chiedere il permesso ogni volta che dovevo mettere il naso fuori di casa.
Dopo qualche giorno vennero sia mia madre che mio padre, ma io non ero in casa, per cui questo incontro chiarificatore con mio padre non ci fu. Io lo vidi comunque come un cedere da parte sua, per cui mi convinsi a tornare a casa.
Quando tornai, mi ricordo che eravamo imbarazzati tutti e due e che non riuscimmo a dire niente… anzi! Lui mi disse: “bentornata a casa Lessie!”, un modo per dirmi che era contento.
L’argomento non venne mai affrontato.
Da quel giorno non ho più chiesto il permesso di uscire, uscivo e basta! Avevo vinto io!
Quello che provo ripensando a quella dinamica è tanta tristezza! Avevo vinto, sì! Ma io non avrei voluto proprio combattere. Avrei voluto un padre che mi proteggesse ma che non mi tarpasse le ali; un padre con cui confrontarmi sui temi della vita, non un padre con il quale non si potesse proprio parlare; un padre che mi abbracciasse e mi facesse sentire preziosa e non un padre che non mi toccava, che mi faceva sentire che ero bella ma puttana! Un padre che riconoscesse il mio valore, e non un padre preoccupato solo di quello che poteva dire la gente.
E comunque, la cosa che più mi faceva male pensare, era il fatto che fossi stata capace di sottomettere mio padre a me… non mi faceva gioire questa vittoria perché avevo vinto una guerra che non avrei mai voluto combattere.
Credo che fu questo il motivo per cui da quel momento in poi sono diventata molto più accomodante… ho ripreso la scuola e mi sono pure diplomata; gli ho presentato subito il mio ragazzo e gli ho fatto conoscere la sua famiglia. Oltre ad andare a scuola, il pomeriggio lavoravo e appena mi sono diplomata ho cominciato subito a lavorare a tempo pieno.
A 22 anni ho deciso di sposarmi e mio padre, anche se non gli è mai piaciuto fino in fondo il mio fidanzato, non si è opposto.
Non era più un carceriere ma nemmeno un accompagnatore.
Sento che tutte le decisioni per la mia vita le ho prese da sola, e sento pure che in un certo senso ho sostituito il carceriere, che da mio padre è diventato il mio fidanzato… un carceriere che avevo scelto e che accettavo perché vedevo con gli occhi dell’amore.
Oggi sento che vincere la guerra con mio padre, anziché aprirmi la strada per la realizzazione dei miei sogni, è stato un modo per smettere di sognare.
Anna Maria