… Loro erano allegri, rumorosi, gridavano, erano diversi… loro mi facevano vivere e morire…

Penso che la prima volta che sono stata male, a 22 anni, ho fatto aletheia, nel senso che, anche se col disagio, non ho più voluto “recitare la commedia”, ho voluto vedere cosa c’era dietro, ero stanca di fingere che andasse tutto bene.


Avevo sempre davanti agli occhi l’immagine di un castello di sabbia, perché io sentivo una grande desolazione, un vuoto: la mia pelle si era assottigliata, avevo un nodo in gola, stavo realizzando che la mia vita era stata “bombardata” e ora osservavo le rovine.

Vivevo un silenzio che mi faceva male, mi sembrava un castigo, mi toglieva il fiato, mi spezzava le gambe, mi piegava in due, mi sentivo trafiggere. Mi sentivo un pulcino in un uovo che non si vuole schiudere, un pulcino bagnato ed infreddolito che non si ripara dalla pioggia. Ero sotto un terribile temporale, lampi e tuoni mi facevano tremare come una foglia, mi scoppiava il cuore, pensieri di morte mi assalivano, il cielo era diventato nero e funesto, avevo brutti presentimenti.

Quando feci la prima visita psichiatrica scoppiai a piangere, mi ricordo che gli dissi: Io sto morendo! perché la mia vita era diventata un puntino nero, ridotto, minuscolo, ormai era solo uno spauracchio, vedevo solo la paura, l’angoscia, la morte.

I miei occhi erano diventati grandi, si sporgevano, ero sempre in agitazione, tramortita.

Era un’esperienza indicibile, aldilà della comprensione. Non riuscivo ad urlare, la voce era intrappolata nella pancia, mi vergognavo di essere nata, ero sprofondata in un abisso immondo, era l’Apocalisse.

Quello che per anni non avevo voluto vedere, adesso si rivelava nudo e crudo, spietato, una visione spettrale.


Avevo sempre vissuto in un Limbo, mi ero sempre nascosta, in dormiveglia.

Non avevo voluto vedere i miei silenzi interminabili, il mio essere passiva, succube, complice, la mia testardaggine, la mia totale mancanza di emozioni, il mio estremo egoismo, alienamento.

Mi ero fatta scivolare addosso il fatto di non riuscire a guardare negli occhi, a commuovermi, a piangere quando ero arrabbiata, a gridare, a non tenermi tutto dentro, a saper condividere.

Avevo resistito a tutti, ero una lastra di marmo, fredda, dura, severa. 

Mai un cedimento, un segno di umanità, non mi scoprivo mai, mi difendevo con la paura, la minaccia, gli altri mi temevano, vedevo i loro sguardi interrogativi. Quando mi avvicinavo agli altri sentivo un imbarazzo in me e in loro, un silenzio pesante, un’atmosfera cupa.

Ho sempre provato solitudine, un vuoto intorno a me. Sin dai primi anni facevo fatica a comunicare, già guardavo gli altri stando in disparte, già li vivevo con diffidenza, li temevo, erano un pericolo. Già disegnavo un confine tra me e il mondo, mi tiravo fuori, dovevo stare attenta agli altri, mi potevano far del male, era meglio stare per conto mio. Mi dicevo di non fidarmi, di non dare niente di me a loro, perché non meritavano, loro erano allegri, rumorosi, gridavano, erano diversi. 

Io mi dovevo difendere, li dovevo punire, non dovevo avere niente a che fare con loro, erano cattivi. Per ripicca all’asilo, a Carnevale, mangiai un sacchetto intero di confetti per non dividerli con nessuno, perché non li sentivo amici, meglio pensare a me!

Non riuscivo a scambiare con le persone, perché non avevo il corpo, quindi ero freddissima, penso che per gli altri fosse una mortificazione continua, un insulto, sentirsi continuamente rinnegati. 

Io morivo ogni volta, battevo sempre in ritirata, ogni volta confermavo la mia inadeguatezza, il mio sentirmi respinta. Lo vivevo come un fallimento, mi caricavo di angoscia e ansia e la vita si faceva sempre più pesante e vuota.

Poi mi inorgoglivo e rivendicavo la mia superiorità, soffermandomi su aspetti marginali come la bellezza fino a farne un culto, un idolo, il centro di tutto, per rendersi più accettabili agli altri, per metterli a tacere. Allora ricercavo, in maniera ossessiva, la perfezione, curavo i minimi dettagli, dovevo continuamente migliorare per non essere superata, perché così non sarei apparsa brutta alle mie sorelle e non avrebbero avuto niente da ridire. Ero molto invidiosa delle altre, l’aspetto fisico era il primo obiettivo che ricercavo in maniera esasperata, “na malatij”. Ero molto legata alla bellezza anche perché mi vedevo più bella delle mie sorelle, allora per me era un punto a mio favore, che rivendicavo.  Infatti, quando mi accorsi che mia sorella più piccola attirava più consensi di me, per me fu uno smacco, perché anche l’ultima certezza era venuta meno.

Scioccamente interpretavo male i messaggi degli altri, non capivo cosa volessero dirmi, cosa fosse il loro disappunto. Non capivo che avrei dovuto abbassarmi, io invece mi innalzavo, loro volevano che stringessi la mano, io pensavo che loro mi vedessero come un verme, invece di avvicinarmi, io mi mettevo ad un livello superiore e dal piedistallo non sono voluta più scendere.

Mi sono negata anche il pianto, non ho più pianto per non apparire debole, allora la mia pianta si è rinsecchita, il terreno è diventato arso, ho scelto di non mostrare le mie fragilità, ho respinto il negativo perché mi umiliava di fronte agli altri. Quell’emotività incontrollata poteva far ridere gli altri, gli altri potevano approfittarsi di me. Mi sentivo osservata, gli sguardi si facevano pesanti, invadenti, feroci.

E questo mi aveva sempre più intirizzita, ero sempre più inflessibile, una Sfinge, il mio volto era inespressivo, una maschera, non facevo trapelare niente, “fingevo di vivere”.

Non volevo morire davanti agli altri, non mi arrendevo, fingevo imperturbabilità perché non volevo aver bisogno di loro, consegnarmi a loro, perché temevo che mi avrebbero delusa, mortificata un’altra volta.

Pensavo che, mostrandomi debole, gli altri mi avrebbero rifiutato, come era già successo, quindi era meglio mascherarsi per avere almeno uno scudo, una protezione, non essere completamente esposta, per non farmi sbranare.


Temevo di rivivere il dolore di quando, da bambina, non riuscivo a trattenere le lacrime e mi sono sentita sola, abbandonata. 

Volevo fuggire e gli altri mi hanno fatto capire che dovevo vedermela da me, non dovevo frignare, che era un problema mio. Quella mia diversità non era benvista, era qualcosa da respingere, da non accettare, quasi una vergogna, da coprire come “la cacca del cane”, allora imparai a farne a meno.

Ma, come si dice “nulla si crea e nulla si distrugge”. Sopprimere le emozioni non mi rendeva più leggera, anzi, ero zoppicante, dovevo faticare ancora di più, mi dovevo “arrampicare sugli specchi”, perché non potevo essere diretta.

Dovevo sempre fare i salti mortali, ero sempre sofferente, pesante, perché non mi esprimevo di pancia. Non potevo vivere, dovevo sempre “pensare a vivere”, mettere sempre un filtro, giudicare la mia vita, farle il processo, ero sempre trattenuta, cerebrale.  

Ero il giudice più severo della mia vita, avevo dei parametri rigidissimi, scandagliavo ogni aspetto, mettevo tutto sotto accusa, ero sempre “meno”, avrei sempre dovuto essere più, ero sempre alla ricerca del difetto, dell’imperfezione, della causa del mio mancato successo. 

Incontentabile, sempre in affanno, un eterno tormento.

Non c’era posto per alcun cedimento, non mi “mostravo mai”, avevo completamente escluso la dolcezza, la tenerezza, l’emozione, non trasmettevo nulla di me, ero una lastra di ghiaccio, un muro di gomma. Tutto rimbalzava, ogni sguardo, ogni sorriso, ogni abbraccio lo rispedivo al mittente, come una palla avvelenata, sputavo tutti in faccia. 

Doveva essere chiaro che non mi dovevano “toccare”, non si dovevano permettere, avevo relazioni “recintate”, asimmetriche, io non dovevo mai scendere, sottostare, gli altri dovevano ammirare. La mia superiorità doveva essere netta e non doveva essere messa in discussione, zittivo tutti. Come un carrarmato mi abbattevo sugli altri, li buttavo giù come birilli, per difendermi aggredivo, intimorivo, li tenevo a distanza, dichiaravo guerra.

La mia sensibilità era diventata un’arma a doppio taglio, da un lato ero morbida, desiderosa di affetto, “di cristallo”, ma questo era diventato un pugnale rivolto verso di me, mi rendeva oggetto di osservazione, mi caratterizzava troppo, dovevo difendermi da essa.

Sin da piccola ero sensibile all’esterno, mi piaceva andare incontro, ma dovetti scontrarmi con la realtà e quello che più desideravo si negava, si allontanava, diventava irraggiungibile, inafferrabile.

Mi sentivo punita, vedevo che il mondo diventava sempre più “sbarrato”, le porte si chiudevano, io ero sempre più isolata, mi arenavo sempre più, il mio mondo interiore si faceva sempre più intricato.

Il mio cuore diventava sempre più piccolo, a volte mi sembrava che me lo prendessero a martellate, la realtà era sempre più sfocata, non definita, frantumata in mille schegge che cercavo di scansare. Mi limitavo a parare i colpi, ero sempre in difesa, in allerta.

La mia casa era sempre più “murata”, non comunicava, sempre più soggetta all’incuria, al degrado, non c’era luce, aria, né erbe né fiori. C’erano crepe dappertutto, l’intonaco cadeva a pezzi, ragnatele, polvere…

Cominciava a riempirsi di mosche, larve, serpenti, pipistrelli, ratti, sembrava più una giungla. C’era umidità, muffa, nessuno voleva entrarci, perché’ usciva un odore sgradevole, perché’ temevano che crollasse, perché avevano paura di quello che avrebbero potuto trovare.

Tutti avevano paura di questi fantasmi, erano terrorizzati, fuggivano per non giustificare, per prendere posizione, per non essere compiacenti, complici, per correggere, raddrizzare. Tutti colpivano i muri per far uscire le bestie, davano scossoni per “pulire” la casa, renderla più sana, non accettavano che fosse abbandonata, in rovina, faceva loro rabbia.

Erano preoccupati, angosciati, non se ne facevano una ragione, si sentivano in soggezione, sotto interrogatorio, minacciati.

Io ero diventata una presenza inquietante, un’ombra, una figura sospetta, vagavo di qua e di là senza meta, un’anima in pena.

Mi distaccavo sempre più dalla realtà perché non la comprendevo, per difesa cercavo di rifuggirla, perché mi minacciava, mi respingeva.


Questo sicuramente creava disagio, tensione negli altri, perché li metteva in discussione, perché toccava dei tasti dolenti, richiamava episodi dolorosi, apriva vecchie ferite. Ero come un promemoria, mi associavano ad una morte dolorosa, un fatto atroce, dietro di me c’era sempre un’ombra, una specie di tabù.

Ero isolata anche rispetto ai miei fratelli, eravamo cinque, io ero sempre in disparte, “indietro”, li inseguivo sempre.

L’ultimo posto spettava sempre a me, in automatico, dovevo sempre accontentarmi, adeguarmi, fare un passo indietro per fare spazio a loro. Soccombevo sempre, non sapevo difendermi, ero sconfitta in partenza. Non avevo voce in capitolo, non mi consideravano affatto. Se c’era da eseguire un obbligo-dovere spettava a me, non c’era dubbio, ero adatta al compito, ero l’ultima ruota del carro, quella imbranata, che non si svegliava, che doveva imparare. Ero perfetta per sottomettermi, servire gli altri, stare un gradino sotto. Mi era stata assegnata quella parte e la dovevo interpretare.

Quindi mi davano per scontata, non potevo pretendere, dire no, “serviva” che io non dessi fastidio, faceva comodo che io non mi ribellassi, non mi emancipassi, fossi “neutrale”. Forse questo mio essere “brutto anatroccolo” li faceva sentire più sicuri, migliori, perché sapevano che c’ero io a calamitare, ad attirare rimproveri, facevo loro da parafulmine, perché sicuramente ero io ad aver sbagliato, quella da punire, che non imparava, da correggere, raddrizzare. Si colpiva me per dare l’esempio, per spaventare, per dare lezione, per indicare la strada.

Mi riempii così di rabbia, rancore, odio, ero satura, sempre malinconica, “musona”, guardavo in cagnesco, facevo muro contro muro, sempre sul piede di guerra.


Non comunicavo, le mie parole si potevano contare, i silenzi inquietanti. Non parlare era una forma di protesta, negavo anche la voce per vendetta, per dispetto, per fare male. Li punivo perché stavo male, li provocavo per essere vista. A mia madre non rivolgevo neanche la parola, evitavo anche il contatto, la disprezzavo. La sentivo ingombrante, pesante, invadente, indifferente. Lei mi trascurava, non ero degna di attenzione, non dovevo creare problemi, dovevo tacere, mettermi da parte, rannicchiarmi, mettermi all’angolo. Mi metteva sempre in secondo piano, in panchina, ero una riserva, lei non credeva in me, io ero la seconda scelta. Mi bloccava perché non riteneva che avessi le qualità giuste per far bene, perché ero timida, insicura, non mi decidevo, ero lenta, non ero attiva, non avevo la risposta pronta. Ero difficile, non mi adattavo, la contestavo, rifiutavo quello che mi preparava da mangiare, i vestiti che comprava per me. Ma lei, con sufficienza, diceva che ero io che non sapevo accontentarmi, si spazientiva, era stizzita e allora metteva me in discussione, facendomi apparire troppo esigente, di gusti difficili, che non sa mai quello che vuole.

Tutto ciò mi ha scavato dentro, mi ha svuotata, ero completamente in subbuglio, scombussolata, disorientata, ero un mare agitato, in tempesta.

Non sapevo chi ero, ero spaurita, tramortita, non mi fidavo di nessuno. Nell’arena esistenziale finivo sempre K.O., non mi alzavo affatto. Ero come argilla, non avevo strumenti per affrontare la realtà, quindi inevitabilmente mi facevo male.

Ero così sminuita, svalutata, che mi sentivo sempre in difetto, in dovere, dovevo sempre conquistare gli altri, ero dipendente dagli altri, loro mi facevano vivere e morire. Ero così inesistente che ricercavo spasmodicamente lo sguardo, l’attenzione degli altri, un rituale ossessivo. Ero completamente proiettata all’esterno, fuori di me, mendicavo amore, affetto. Continuamente vivevo la frustrazione e la delusione, perché quello che pensavano gli altri per me era fondamentale, con uno sguardo potevano buttarmi giù, ferirmi.

Non mi rilassavo mai, sempre in attesa di giudizi, sotto esame. Se uscivo e passavo inosservata, ero finita, voleva dire che facevo schifo. 

Che gran fatica vivere in questo modo, ti toglie il respiro, ti sfianca, ti strazia, ti consuma.

Pesare ogni parola, ogni gesto, espressione, dover sempre dimostrare, non essere mai all’altezza, essere sempre respinta, non affacciarsi mai, non riuscire mai a stare a galla. Come fare una gara e non tagliare mai il traguardo, non riuscire mai a battere un record, fare sempre falsa partenza.

Già conoscevo la pesantezza, la stanchezza, già mi scoraggiavo, mi disperavo. Sostenevo un grande peso, facevo fatica, dovevo sempre raggiungere qualcosa, non ero libera di vivermi la mia età, di avere “pensieri piccoli”, di ricevere affetto. 

Non mi è stato permesso di fare la bambina, mi dicevano che non ero una brava donnina, non ero accettata, mi facevano capire che dovevo cambiare, che il mio carattere non era un granché, non mi sopportavano. Mi guardavano con commiserazione, sospiravano, facevano silenzio, mi trasmettevano preoccupazione, ansia, mi avevano già assegnato un destino, un futuro improbabile, una ” brutta sorte”.

Dicevano: “Ha il carattere della mamma”, ma questa espressione richiamava un’accezione negativa, lasciava intendere è più remissiva, non ha carattere, è timida. Io la vivevo come una chiusura, come a dire farà la fine della mamma, mi sovraccaricava di pessimismo. Il modo in cui gli altri parlavano nascondeva un presentimento, una premonizione, paura, angoscia, di qualcuno che sa, che afferma una realtà, come a dire: “Lo sapevo”.

Ecco perché ho vissuto l’esterno, fin da subito, come ostile, non accogliente, dolce.


Avevo sempre un impatto sgradevole con la realtà, traumatico, un contrasto. Io avevo delle aspettative, ma quasi sempre erano deluse, mi sentivo mortificata.

Mi rendevo conto che in me c’era qualcosa di diverso, che cozzava con l’esterno, ero sempre una nota stonata, le cose non scorrevano, c’erano sempre sbarramenti, ostacoli, qualcosa che non convinceva gli altri, un “peccato originale”.

Mi sono così rinchiusa in me da ritenermi superiore agli altri, da disprezzarli, io ero il centro e la misura di tutto. Non esisteva altro Dio all’infuori di me. Non c’era possibilità di dialogo, confronto, scambio, per me non c’erano i presupposti. Ero razzista, perché gli altri erano inferiori, dei poverini, non capivano niente, ridicoli, stupidi.

Quindi ci mettevo una bella croce sopra, li cancellavo. Combattevo sempre, avevo sempre nemici, stavo sempre in trincea, mai una tregua, sempre coi fucili puntati.

Questo mio vissuto ha contrassegnato la mia vita in maniera importante e dolorosa. 


Con il mio disagio credo di aver cercato di oppormi e dare un senso. 

Mi sono resa conto che il mio passato mi stava divorando, mi aveva ridotto ad uno scheletro, la vita era diventata invivibile. Non riuscivo più ad andare avanti. Era diventata solo obbligo-dovere, regole, ordini, non era rimasto più nulla, quindi tanto vale mettersi a letto.

Alzavo bandiera bianca perché per me era incomprensibile, inaccettabile, mi facevo schifo, non riuscivo a stare con gli altri, ero spaventata, era un non senso. Avevo rigettato, vomitato tutto.

Ma poi non è stato affatto facile, ho intrapreso una strada non sicura e molto irta. Molte volte sono caduta e rialzarmi non è stato per niente semplice, ho dovuto imparare a farmi forza anche da sola, a “morire” tante volte. Non riuscivo a prendere decisioni, rimandavo, non affrontavo i miei nodi. Poi da subito ho preso psicofarmaci, che mi hanno mantenuta in una posizione stazionaria, stagnante, mi facevano sentire “legata”, costretta. Ero imbambolata, ipnotizzata, sospesa, non sentivo niente, solo la morte. Come la neve avevano coperto tutto, anestetizzato, raso al suolo, messo a tacere. 

Ero sempre più sprofondata e avevo sempre meno fiducia, credevo sempre meno, il mio cuore era addormentato, la mia vitalità spenta, sentivo sempre meno l’istinto di sopravvivenza. 

I farmaci ti fanno morire dentro, ti appiattiscono, ti danno solo una facciata, apparenza, ti rendono “presentabile” o comunque accettabile, ma piano piano ti scavano dentro, ti distanziano sempre più da te, ti uccidono, ti spengono piano piano. Ti allontanano dalla tua vita, ti fanno sprofondare in un pozzo sempre più profondo.


I farmaci non risolvono il problema, servono solo a non far agitare noi e gli altri, ma questo è un pronto soccorso, poi si rimane in coma. 

Credo sia un dovere pensare anche alla vita delle persone, non seguire solo protocolli, ma, con responsabilità, interessarsi, stimolare, risvegliare l’amore per la vita e per sé, non essere indifferenti, tecnici, burocrati. Bisognerebbe preoccuparsi e cercare di salvare vite che si stanno spegnendo, soccorrerle, rendersi conto della gravità, del pericolo, agire con coscienza.

Celeste

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