Primo appuntamento con il Corso MAESTREPOLO sull’esistenza, una bussola per navigare tra vita e conoscenza. PIU’ MORIAMO PIU’ INIZIAMO: Celeste
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disegno di Francesco De Gregorio |
Va be’, innanzitutto mi ha fatto piacere rivedere te Mariano, un bel sospiro di sollievo, perché ero preoccupata, dato che, per come ti ho conosciuto, non ti tiravi mai indietro.
Mi ha sempre affascinato la parola maestro, perché mi dà l’idea di saggezza e pienezza. Penso alla maestra delle elementari, che era un po’ una mamma, premurosa e affettuosa. Per me il maestro è stato sempre un modello irraggiungibile, penso a Gesù, cioè un prescelto, qualcuno che ha doti uniche, che si distinguono, che sono eccellenti, che sa fare qualcosa che solo lui sa fare.
Anche tu Mariano sei un maestro, perché sei un esempio, qualcuno da cui apprendere e cercare di imitare. Nella mia vita ho sempre cercato maestri, mi aggrappavo a loro, perché io avevo tanto bisogno di ossigeno, di essere vista. Per me erano come fari nella notte, perché ritenevo di aver bisogno di imparare, che ero mancante, avevo la bocca asciutta e avevo bisogno di dissetarmi.
Perché a casa non ero nessuno, ricercavo il riconoscimento fuori, pendevo dalle labbra di professori, preti… Li ho sempre idealizzati, pensavo che mi potessero salvare, liberare. Cercavo i maestri, perché mi ritenevo indegna, era una richiesta di attenzione, consenso, perché pensavo che non li avrei mai raggiunti, ne avrei avuto sempre bisogno. Per me erano di un livello superiore, ” assunti in cielo”, detentori della verità e io dovevo venerarli, respirare la loro aura per catturare un po’ del loro carisma.
Io ero un’eterna discepola, che non aveva nulla da insegnare, che doveva darsi da fare per guadagnare qualcosa, che si doveva sempre meritare tutto, non avere diritti, come se quello di discepola fosse un ruolo assegnato, un destino. Non prendevo mai parola, posizione, non mi autorizzavo niente, mi doveva andare sempre tutto bene, perché’ non mi potevo permettere di deludere, dovevo fare la ” brava”. Vivevo per accontentare gli altri, l’autorità dei miei familiari mi aveva molto ridimensionato, io potevo solo ricevere, subire, non essere attiva, proporre.
E siccome non mi sono mai allenata a fare la maestra, non facevo né la maestra, né la discepola, o al massimo facevo la ” maestrina” o la ” secchiona”. Non ho mai accolto la morte, non ho mai voluto perdere, sono stata io il mio primo limite, ho alzato sempre di più l’asticella, mi sono prefissa traguardi irraggiungibili. Ho sempre respinto la morte, allora la mia vita era invivibile, un fuggire continuo, avevo paura di cadere, per me era pericoloso, era la fine del mondo, temevo quasi un castigo.
Io non volevo morire, le cose negative mi spaventavano, allora ero rigida, sopportavo, non riuscivo mai a sciogliermi, rimanevo sempre in superficie, ero imbalsamata, ” ncantet”.
Avevo anche paura di soffrire, non tolleravo la minima frustrazione, per me anche quello era un po’ morire, avere la conferma che non valevo, era come mettere il dito nella piaga.
Celeste