Ricomincio dal ghetto
In quest’ultimo mese sento emergere un forte calore dentro me che man mano sale e porta fuori tanto.
In positivo c’è una forza ed energia dentro me e sento che quello che ho costruito nel rapporto con me stessa adesso me lo riconosco, lo sento, lo vedo e non me lo porta via niente e nessuno.
C’è la mia capacità armonica e globale di mettere insieme ed accogliere il negativo come una spinta, ma nello stesso tempo sento il bisogno di volermi rispettare e di gridarlo, definendomi.
Dopo la settimana intensiva di settembre, che sono riuscita a coordinare con tanto amore, spirito e fermezza ho sentito riemergere anche questo dolore antico rispetto a mia madre e alle figure femminili molto maschili con un angolo alfa che non fa entrare e giudica.
Questa volta però la dinamica è cambiata perché non mi faccio schiacciare ma il bio-organico mi spinge con imponenza a non subire.
Adesso se c’è qualcuno che mi vuole dare il contentino o che non dà valore e ascolto anche al mio dire non mi fermo, anche perché con il mio stile e a modo mio ho un bell’angolo alfa che sa giocare con altre parti.
È un fuoco che parte da dentro e che porta con sé tanti bisogni, come anche quello di essere accolta o festeggiata.
Questa volta però non sono più in attesa perché il valore di me donna, madre, maestra e bambina lo sento di più.
Stanno emergendo altri angoli beta che faccio difficoltà a mettere in pratica.
È come se dovessi scalare una montagna.
In questo periodo mi è ritornato il bisogno di fumare le sigarette e qualche volta mi concedo due tiri in compagnia.
È come se mi aiutasse a tenere a bada un po’ questo grande fuoco che a volte non so dove mi porta.
Nello stesso tempo, sento molto di più l’amore per il Progetto e per alcune relazioni.
Sento di più e talvolta in maniera nuova e inedita.
Per me le morti di quest’ultimo anno sono state benefiche, io credo che la morte di Kebe sia stato come un suicidio, così come per mio padre.
Romano mi ha regalato negli ultimi giorni la sua parte sofferente e maltrattata, un bambino che grida aiuto perché in ultimo si sentiva perseguitato e che accanto ha avuto una madre maschile e violenta, un padre silenzioso, in disparte che lo hanno reso un uomo con tanti sogni e desideri ma senza poterli esprimere pienamente e veramente.
Un uomo dal cuore malato, dai tanti trombi, che non ha espresso il suo grande potenziale ma neanche si è voluto uniformare a tutto il resto.
Mio padre era un uomo dalle tante arti e potenzialità, con tanta rabbia che copriva con il bere, la rabbia, lo stare fuori casa.
È morto schiacciato dai debiti della famiglia d’origine che ha succhiato la sua luce, infatti nell’ultimo periodo tra le tante patologie cardiache si era unita la leucemia, così com’è stato nella coppia con mia madre e così come ha tentato di fare con noi figli in coppia con Antonietta.
In passato mi sono sempre legata molto alle persone e meno a me stessa, forse proprio per la paura di perdere e la voglia di possedere qualcosa di esclusivo per me.
Per me, oggi lo posso dire che ci sono stati due grandi regali con le loro morti.
Mi sono abituata alle presenze assenze per me, presenze ingombranti che davano l’illusione di starci.
È così che si comincia ad accontentarsi di poco.
Mio padre me lo sento come una presenza dentro adesso, mi sento questa sua parte che non si arrende, che spinge e non subisce, ma io voglio fare di più, voglio dar voce ai miei sogni, alle mie ambizioni.
Sento forte la necessità di riprendere l’università perché è una cosa che ho lasciato in sospeso.
Avrei voluto fare psicologia ma ero troppo stupida e poco intelligente per i miei genitori: era meglio fare l’Isef, un qualcosa che venti anni fa era accessibile a tutti, legato alla pratica, al corpo.
È una cosa forte per me, ma ho pensato che sarebbe buono sia per la scuola, perché potrei avere maggior voce, e anche per la Scholè in futuro.
Quest’estate spesso ho pensato che mi piacerebbe ritornare in Puglia, ritornare nella mia terra, adesso non sento più la minaccia.
Fino a poco tempo fa quando rientravo ad Ancona sapevo di ritornare a casa.
Oggi che la mia casa interiore si è rafforzata sento che forse questa tappa anconetana non sarà la definitiva.
Poi ci sono le comunità e l’ingresso in questa nuova scuola che è avvenuto a settembre scorso.
Sono partita con un’energia forte e continuativa, ho preso due prime con un’utenza di stranieri quasi totale e in una delle mie classi c’erano solo quattro bambine italiane degli archi, poi il resto bengalesi e africani.
Lavorare in una scuola multietnica è un’esperienza che dovrebbero provare tutti gli insegnanti.
Tutto ciò che è programmabile normalmente, con questi bambini lo devi rimettere sempre in discussione.
Mi sono dovuta immergere e mettermi in ascolto o meglio sintonizzarmi con loro e lì, dove la lingua non ti aiuta e con l’analogico devono prima fidarsi per farti entrare, bisogna inventarsi.
Partivo dal sole che entrava nell’aula e da lì inventavo una canzone, un saluto al sole e poi associavo una conoscenza come il calore, il giorno e i momenti della giornata.
Ho utilizzato l’ironia e la Realtea drammatizzando ed entrando in comunicazione molto con la mimica e le immagini.
Poi ho iniziato ad entrare interessandomi alla loro lingua perché tra di loro parlano il bengalese, ma se ti devono dire il significato di qualche parola o tradurre per i compagni, non lo fanno se prima non entri in relazione con loro, se non entri nel cerchio.
Non lasciano entrare se prima non si fidano, e fidarsi significa che non ci sia una minaccia per loro.
La minaccia può essere che tu puoi giudicare, voler cambiare o destabilizzare il loro stato quiete.
L’anno scorso sono andata a casa di una bambina bengalese che abita vicino casa mia per andare a trovare la madre che aveva partorito, il figlio era in ospedale e lei non poteva venire a prendere i figli.
Sono andata da lei, le ho portato dei libri e dei quaderni facendole capire l’importanza che la figlia venisse a scuola e la mia vicinanza.
Così mi sono conquistata la sua fiducia e la sua amicizia, mi ha aiutato con le altre mamme e con i bambini.
Tauss è una bambina dalle mille potenzialità e ha una forza e un carisma forte.
Così ogni giorno il buongiorno, un comando, una parolina in italiano, in inglese, in bengalese e tutti a ridere perché non ho una buona pronuncia.
Un giorno, durante la merenda, avvicinandomi a delle bambine, hanno cominciato a farmi il solletico, io sono rimasta sorpresa, m’incitavano a giocare e così da lì ho iniziato il primo approccio con il corpo.
Mi ha colpito la capacità di passare da una cosa seria al gioco, alla cura di piccole cose, al prendersi cura, alla festa non solo per loro ma la festa rituale anche rispetto a piccoli passaggi o momenti di condivisione.
Quest’anno mi hanno detto che la festa bisogna farla all’inizio della scuola, così oggi per il mio compleanno, assieme all’aiuto di una mia collega, hanno organizzato una festa per noi e non solo per me.
C’è molta solidarietà tra di loro.
Ritorno all’anno scorso.
In tutto questo le bambine italiane dove finivano? Le guardavano stupite ma facevano attenzione a non avvicinarsi. Ho dovuto molto lavorare sull’integrazione, la chiamerei avvicinamento.
La maggior parte dei bambini italiani, a sei anni, arrivano già sapendo che non potranno scambiare niente perché loro hanno tutto ciò che gli serve per stare nel loro piccolo e dispersivo mondo, purtroppo.
All’inizio è stato difficile farli mettere in ascolto l’uno dell’altro e creare dei giochi in condivisione.
All’inizio mi ha molto rattristato quello che vedevo e allora ho cominciato partendo dal fondo comune uguale per tutti: le emozioni.
Avevo preparato un cartellone con delle facce: oggi io mi sento triste, felice, annoiato, solo, stanco, energico ecc.
Così, anche chi non voleva parlare o non conosceva la lingua, si alzava indicando la faccina, magari univa poche parole per esprimere un fatto o uno stato d’animo e lì il silenzio calava, e poi un gesto di affetto, un abbraccio, un dono, una canzone o un disegno.
Devo dire che per i bambini più resistenti dopo ho scoperto che i genitori gli avevano detto di non socializzare con gli stranieri, quindi alla fine in classe si sentivano liberi mentre fuori, con la famiglia, mostravano un’altra parte.
Le bambine bengalesi erano lì ad attendere un cenno, uno sguardo per entrare nel loro gruppo e invece quelle più sicure entravano quando volevano con il gioco o prendendole in giro.
Il Crossing-over non è contemplato, si sta bene attenti affinché non avvenga, anche se poi è avvenuto comunque grazie al mio favorirlo a piccole dosi e con qualche imbroglio per la vita.
C’è una grande ignoranza dietro questo scambio alla pari.
Questa scuola ti obbliga ad un tempo lento e intenso, dilatato, ad un poco alla volta che poi ti viene ridato tante volte, ti obbliga a non dare importanza al compito a casa perché a casa non c’è chi aiuta quindi non tutti possono svolgere i compiti; ma la voglia d’imparare, di farcela, d’impegnarsi è forte e emozionante.
Dall’altra parte ci sono le bambine italiane ricche di esperienze, di giochi, sport e possibilità che le rendono più veloci ma meno di pancia, ma proprio per questo lo scambio sarebbe fruttuoso.
Quanto potrebbero arricchirsi in questo crossing-over?
E poi a metà anno qualcuno inizia a leggere, a scrivere spontaneamente, a riordinare il quaderno e i compiti da solo. Che meraviglia!
Ho fatto il massimo di quello che potevo con un tempo minimo, con un lavoro iniziale su ogni singolo bambino e la sua storia, tenendo conto del suo punto fragile che poteva rafforzare ma senza perdere di vista che sarei dovuta partire dal fondo comune delle emozioni, dal contatto del corpo per arrivare a far fluire ciascun piccolo e specifico Graal… Partire dal simbolico e scendere per poi potersi esprimere acquisendo la lettura, soprattutto con un proprio tempo, senza il timore di sbagliare o la pesantezza del compito, dando un senso ad ogni piccola crescita.
Alla fine dell’anno è stato bello vedere Tauss che leggeva a voce alta e si avvicinava a M. per alternarsi nella lettura.
È stato uno spettacolo vedere, mentre io raccontavo una storia, M. alzarsi e incominciare a disegnare il personaggio della fiaba alla lavagna e poi proporlo a tutta la classe, mentre la chiamavano per essere aiutati nel disegno.
È stato significativo vedere D. che finalmente dava la mano ad un bambino bengalese senza schifarsi e poi gli sguardi, i sorrisi.
Il mio più grosso impegno l’ho avuto proprio con le mamme di queste bambine italiane, sempre dubbiose che una scuola così mista potesse essere buona per i figli.
Adesso è iniziata la seconda delle mie due classi ma nell’elenco di quest’anno mancano tre di queste bambine italiane; da premettere che molti di questi bambini sono nati in Italia e parlano, leggono e scrivono molto bene.
Mi mancheranno, così come ho spesso ripensato ai tanti bambini che sono arrivati e andati via perché questa è anche una scuola di passaggio per qualcuno che arriva in Italia, resta sei mesi, e poi va in qualche altro paese.
Ma ognuno ha preso, donato e lasciato qualcosa ed iniziando quest’anno sono partita proprio dalla loro assenza con i bambini.
Il tempo lento è per la profondità, è per i ritmi più vicini alla vita e alla conoscenza, un tempo lento fa sedimentare, lascia spazio e fa entrare. E se fa entrare, arricchisce e fa venir fuori le tante arti di ciascuno che anno dopo anno raccoglieremo.
Qualcuno pensa che vado contro corrente ma questo adesso non mi spaventa più. Io parto dal fatto che ogni bambino ha un suo potenziale e un tempo per esprimerlo e che bisogna dargli le occasioni, il tempo, la possibilità e gli strumenti per accompagnarlo a esprimersi.
Non c’è un’unica strada o un solo modo di fare per stare a scuola ma io posso dire che è innaturale forzare e affrettare, è innaturale dare delle rigide regole o pretendere un ordine in classe quando è il caos che la molteplicità delle etnie e dei vissuti porta.
È dal caos che si crea l’ordine.
Se penso al grande lavoro fatto l’anno scorso, mi chiedo come ho fatto tra le settimane intensive, questi due lutti, la visita a Kebe a Bruxelles e poi lo stare vicino a mio padre mentre spegnendosi delirava.
A scuola ho sempre condiviso ai miei alunni i miei passaggi e le mie tristezze ma anche le mie soddisfazioni e gioie, mi sono fidata di me e di loro e penso che anche questo abbia contribuito a rafforzare il nostro legame.
Quest’anno ricomincio con due classi, con meno bambini e con un’iniziale amarezza dovuta all’assenza delle bambine italiane sulle quali ho investito anche molta energia con le mamme, accompagnandole nei loro dubbi e invitandole ai vari incontri svolti in associazione con il laboratorio di Emozionarte, un laboratorio espressivo e creativo nel quale, partendo da una fiaba o da uno stato d’animo che loro vivevano a scuola o in famiglia, potevano esprimerlo attraverso l’arte creativa (il disegno, il canto, il ballo, le stoffe).
Riparto anche godendo dei frutti che la semina dell’anno scorso mi sta dando rispetto ai bambini stranieri e gli italiani di origine straniera.
Ripercorrendo anche la mia relazione con alcuni genitori dei bambini del quartiere, con i quali ho condiviso percorsi di vita e di fratellanza insieme e impegnati nel miglioramento del quartiere, ho pensato che avremmo potuto lavorare unendo le forze per costruire qualcosa di significativo per questi bambini e ragazzi, e non una spaccatura.
Insomma, le cose che per me erano prioritarie non lo erano per loro.
Bastava essere chiari ma evidentemente il globale massimo era un altro.
Per me c’è lo scambio con le etnie, uno scambio alla pari, un arricchimento, un qualcosa di inedito e nuovo, invece c’è stata la ritirata proprio da chi dice di avere a cuore il quartiere, la multiculturalità, lo scambio e la crescita disinteressata.
Tutto questo con non poche conseguenze anche negli altri genitori e con gli altri bambini perché sono dovuta ripartire da queste assenze non solo con i bambini e i genitori, ma anche con i colleghi, con i quali ho voluto fin da subito esporre le difficoltà d’integrazione che ci sono e che bisogna valorizzare la scuola mettendo l’attenzione sull’arricchimento dello scambio che avviene in questa scuola.
Ma per me tutto questo è stato solo l’occasione per definire il lavoro che faccio e le responsabilità di tutti nell’offerta formativa e nel raccordo con il quartiere e le istituzioni.
Atre famiglie italiane del quartiere che hanno i figli alla scuola materna manderanno i loro figli ad un’altra scuola, e così la scuola degli archi è destinata a diventare una scuola ghetto perché emarginata da famiglie italiane spaventate dal fatto che i propri figli non hanno niente da scambiare ma da perdere.
Forse bisogna proprio cominciare dalle etnie.
Che significa scuola ghetto? Il ghetto è un posto definito brutto, sporco, lugubre dove c’è delinquenza, un posto isolato.
Ma è una parte.
Io ci sono stata in un ghetto in Africa: il ghetto è anche un posto di condivisione, di festa, di molteplicità, un posto nel quale con poco si condivide e ci si aiuta, un posto dove è forte il senso della famiglia molteplice nel quale convivono tante diversità.
In un ghetto, una casa è anche un negozio, è un posto dove pregare o per riunirsi e parlare.
Parlano senza conoscere.
Poi potremmo dire o approfondire tanto altro.
Le donne giovani bengalesi mi hanno accolto con grandi sorrisi, abbracci e doni che parlavano più delle parole, questa è una delle ricchezze, le poche parole e i fatti, la concretezza nell’esserci, la dignità e il rispetto sono dei Me.Me. (Mediatori Metastorici) importanti; d’altro canto, le bambine italiane con i tanti stimoli arricchivano di arte, bellezza e libertà.
Se penso al crossing-over che ci potrebbe essere mi emoziono!
Certo in questi mesi sono in crisi.
Mi chiedo ma io che ci faccio qui? Perché prima c’era lo scappare dalla mia famiglia, da Kebe, da mio padre e mia madre, dalle mie soluzioni.
C’era che mi dovevo salvare e che il mio globale massimo era salvarci io e i miei figli.
Ma adesso da dove riparto?
Nel territorio anconetano ci sono io e tante distanze.
È questa la scuola per me? Il lavoro per me? In classe io procedo, faccio, disfo, rifaccio ma in queste scuole c’è bisogno di stravolgere, di fare altro, di conoscenza, di tanti aspetti, di persone che ci credono e si buttano concretamente, come si fa?
Da dove riparto?
Riparto anche da questo scritto, riparto anche dal confronto con le persone che non hanno avuto fiducia in me e nel mio amore nelle cose che decido di fare.
Nello stesso tempo ho comunicato a mia madre che certe aspettative e attese che lei ha verso di me come quando era vivo Romano non ci saranno più, e che se lei vorrà e potrà, può almeno venire a conoscere il grande Progetto nel quale io e la mia famiglia, grazie al passato disagiato, siamo stati immessi, per fortuna.
Per me non è una cosa da niente ma un passaggio importante e delicato per guardare avanti.
Un taglio, un decido per scegliere, per lasciare il Senex e percorrere lo Iuvenis.
Con amore,
Nicoletta