“Non ho più paura di bruciarmi gli occhi ora che ci sono le stelle”…

Oggi rientro definitivo nella storia, dopo una giornata cuscinetto a casa, pur fra preventivi di lavori di ripristino allagamento, eccomi qui in ufficio. Ancora però me la prendo con calma, rimandando a data da destinarsi la lettura delle infinite email ricevute nelle ultime 2 settimane. Mi mette un po’ di ansia sapere di avere tutti quei messaggi da leggere, quindi non li leggo.

Questa immagine della forza che fuoriesce dalla fessura che c’è fra 2 opposti è fortissima e mi accompagna da qualche giorno. Mentre scrivo mi viene in mente l’alba, quel filo di luce che separa la notte dal giorno, che rappresenta quel salto quantico che rompe la frantumazione, ricreando un nuovo spettacolo. Voglio provare a scriverla, proprio partendo da Noè (o meglio da Atrahasis, suo alterego sumerico – che a me i sumeri mi attraggono parecchio e la loro mitologia mi convince molto di più perché più antica e aperta rispetto alle mitologie successive che tendono troppo a chiudere, a spiegare).

Nel viaggio verso il mio Adamo, la mia umanità, sto passando proprio dalla fase Noè, che visse dieci generazioni dopo il primo uomo e che ripercorro tornando verso la mia semplice essenza.

L’israelita Noè ricevette dal suo dio l’ordine di costruire un’arca, un’imbarcazione in cui avrebbe dovuto caricare la sua famiglia e tutti gli animali e gli uccelli, due di essi per ogni specie, uno maschio e uno femmina. Poiché Jahvè intendeva punire l’umanità per i suoi peccati, scatenando un terribile diluvio che avrebbe spazzato via tutto dalla faccia della terra. Tutto, tranne Noè e la sua arca. Quella era l’ultima speranza per il genere umano. Soltanto Noè, il giusto, una volta cessato il diluvio, poteva riportare la vita sul pianeta distrutto.

Intorno al 1500-1200 a.C. il poeta Sin-leqe-unnini, sacerdote della città di Uruk, scrisse il poema ‘Gilgamesh’, capolavoro letterario racchiuso in undici tavolette d‘argilla. Sin-leqe-unnini aveva raccolto antiche leggende e miti sumeri e li aveva debitamente adattati per costruire il suo epos incentrato sulla figura di un eroe, Gilgamesh, ‘colui che vide l‘abisso’, sa naqba imuru.

La versione più antica del mito del diluvio, che risale circa al 2000-1800 a. C. è contenuta nell’epos ‘Atrahasis’ e presenta una differenza fondamentale: contiene tutta una premessa che spiega il vero motivo che condusse alla catastrofe naturale.

Ecco un riassunto della storia, che mi aiuta a raccontarmi…

Enki, fedele al suo buon sacerdote, avvertì Atrahasis (Noè) dell’imminente catastrofe e gli spiegò che doveva essere pronto a rinunciare alla propria casa e a tutti i suoi beni, a costruire un’imbarcazione di forma cubica, completamente impermeabile e chiusa, sia sopra che sotto.

Voglio difendere la mia Faama, con la forza dell’arcangelo Michele, difendere i miei figli e mia moglie, come non ho mai fatto, per via dei meccanismi ereditati dalla famiglia di origine. Sono pronto a rinunciare alla casa che mi ha tenuto legato a loro e a tutti i bene e gli agi economici che ne conseguono. È dura, ma ci posso provare.

Per sette notti Atrahasis avrebbe dovuto ospitare nella sua imbarcazione animali, pesci e uccelli, 2 per ogni specie, uno maschio e uno femmina. 

Voglio intraprendere questo viaggio con la forza del maschile e del femminile insieme. Li ho visti entrambi su di me. Voglio unire anche gli altri opposti, come tante specie di animali, di antenati da salvare.

Dunque Atrahasis costruì l’arca. Poi invitò amici e parenti a un grande banchetto.

Non appena vide che il cielo si riempiva di nuvole, intimò a tutti di salire nell’arca, quindi la sigillò per bene con della pece. 

Voglio costruire la mia arca senza lacerare. Farlo per me e la mia famiglia in primis, ma lasciando aperta la porta a chi vorrà banchettare con noi, fermo restando che la tavola è mia, l’arca è mia e la priorità è mia e che quando è ora di chiudere la porta poi si parte e chi c’è, c’è. Il maschile, il Michele, è ora di mostrarlo, di tirarlo fuori e di metterlo al servizio della protezione dell’esterno.

Quando i venti iniziarono a soffiare con forza, Atrahasis tagliò la gomena e l’imbarcazione prese a galleggiare, sbattuta di qua e di là dalle onde del diluvio. L’arca raggiunse il monte Nisir e si fermò.

E quando i vortici iniziano a frullare, perché son già arrivati in questi giorni come al Rainbow. Quando le soluzioni si tagliano allora nei vortici bisogna starci, sfruttarne addirittura le correnti, sapendo che sono solo rappresentazioni di emozioni forti, con le quali voglio stare e delle quali sfrutto la potenza, trasformando i picchi maggiori in poesia.

Al termine dei sette giorni Atrahasis mandò tre uccelli fuori dall’arca: una colomba, una rondine e un corvo. Il corvo non tornò più indietro e il re-sacerdote capì che il diluvio era finito. 

E poi sfruttare le emozioni per trovare nuove terre. Le positive che prima o poi tornano come la colomba, le negative nelle quali occorre stare per scioglierle, come il corvo e la rondine che sparisce verso nuove primavere.

Atrahasis allora uscì dall’arca e presentò delle offerte agli dèi. Questi scesero giù, fin sull’altare. Enlil era infuriato con Enki che aveva salvato la razza umana. Per ripristinare la pace, Enki fece sì che gli esseri umani perdessero il dono dell’immortalità e vivessero soggetti a dolore e morte. 

E poi capire di potersi mettere alla pari, anche con coloro che prima sembravano irraggiungibili, come dei, perché ci sarà sempre un pezzo dell’infinito ciò che solo io sono, che potrò scambiare con un pezzo di vita di qualcun altro.

Ci sarà sempre, come i miei genitori e mia sorella, qualcuno che si infurierà perché io voglio crescere e per questo dovrò soffrire ogni volta che attraverserò quel canale da parto, perché nulla è immutabile e sono consapevole di volermi godere un po’ queste energie recuperate, per poi rimettermi in moto verso un nuovo FUI.

D‘ora in poi, molte donne della terra dovevano perdere il dono della fertilità, di modo che ci fosse una sorta di controllo delle nascite e il genere umano non potesse moltiplicarsi con tale velocità, come aveva fatto fino a quel momento. 

E sarà sempre più difficile rinascere.

Soltanto allora Enlil ed Enki fecero la pace.

Ed è anche bello accontentarsi e godere, almeno per un po’.

Provo ad ipotizzare qualche momento della mia vita e del mio Rainbow in cui ho attinto dall’energia della breccia fra gli opposti. Premettendo che c’è ancora un mare da attraversare, ma che ho iniziato.

INcluso – escluso

Ho sempre cercato l’inclusione nei gruppi, senza mai sentire di riuscirci fino in fondo, per quello che realmente sono io. Poi ho mollato, come a questo Rainbow, che me ne sono fregato di far parte del gruppo, pur riuscendo a scambiare con tutti.

VIaggio – immutevole

Provando a cambiare sono sempre state più forti le difese/resistenze, mentre iniziando a scardinare inizio a riconoscerle. Iniziando il viaggio si viaggia e si viaggia iniziando a viaggiare.

SOlitudine – dipendenza

Dalla stampella e alla ricerca di un compagno di viaggio, a cui delegare un pezzo di strada, ho imparato a starci da solo. Non sempre, ma uccidendo alcuni mostri da solo, ho attinto la loro forza.

ATTIvo – passivo

Godendo dei doni degli altri, senza dover per forza ricambiare (e non è nemmeno detto che ad una persona serva ricevere), ma dando solo con il piacere di dare si passa dall’essere attivo per obbligo dovere ad essere passivo, o comunque a starci con il minimo delle energie, mantenendo le scorte per i momenti di bisogno.

COntinuo – discontinuo

Dal dover collezionare il maggior numero di conoscenti, alla forza data da compagni di viaggio di cui mi prendo regolarmente cura. Stare in relazione continuativa mi permette di dosare le energie per via della crescita della fiducia reciproca.

SIlenzio – rumore

Dal dover parlare per evitare di trovarsi in momento di silenzio in una conversazione, al godere del guardarsi negli occhi. Forse di sta cosa ne approfitto troppo sentendo il potere che da l’aspettare che sia l’altro a cadere nella “trappola” del parlare per primo. Scopro che questo è un mio meccanismo sirena.

FAme – sazietà

Sto migliorando, addirittura dopo la forte immersione sul desiderio e poi la delusione e rabbia della carenza di amore materno, non ho cenato e per me è un successo enorme. Mi sono sempre riempito la pancia per evitare di lasciare troppo spazio alle emozioni, fin da piccolo. Ora lo faccio ancora, ma sono anche in grado di limitarmi. Ad esempio riesco a fare a meno di fumare (cosa che collego al cibo – oggi applauso a me per i 10 giorni senza sigarette), con il globale massimo, selezionato in profondità, di starci nelle mie emozioni, di qualsiasi tipo siano.

BUio – luce

Ho sempre avuto paura del buio della cantina di casa mia, con l’ossessione di qualcuno (ladri) mi attaccasse alle spalle. Ce l’ho ancora, ma siccome sono anagraficamente uomo non lo dovrei mostrare. L’unica cosa che mi da energia nel buio è la presenza di qualcuno con me, specialmente una donna che mi abbraccia, oppure le stelle, che mi fanno sentire parte di qualcosa di infinito.

CAlore – freddo

Il brivido di freddo, quello vero, profondo, ancestrale.. quello passa solo con una coperta umana. Solo un abbraccio forte è in grado di darmi la sufficiente energia per attraversare tale sensazione di freddo.

REspiro – non respiro

Quando il respiro sembra cessare, i polmoni sgonfiarsi e non riuscire a riprendere aria, le forze abbandonare il corpo… quando tutto sembra finire, di respirare sembro aver perso la speranza, ecco una nuova linfa che attraversa il corpo e che fa circolare un’energia nuova piena e in favore della vita. Bisogna regredire al momento del primo e doloroso respiro per riuscire a trarre l’energia di confine che permette di fare il salto quantico.

Ahora hay estrellas. 

Pero nadie miran.

Todo el mundo tiene miedo de quemarse los ojos… 

[Dicembre 2004]

E MENTRE SONO QUI AD AMARTI,

vita, mi saluti

scuotendomi la pancia

e mostrandoti, non come dolore,

non come paura,

non come ansia,

ma come un’alba antenata.

Spogliato delle mie soluzioni

mi è bastato aspettarti

e appena ho smesso di immaginarti,

tu sei arrivata a prendermi per mano

per accompagnarmi al di là…

Al di là della mente,

al di là della realtà,

per accompagnarmi nel tempo del sogno.

E come un bambino che muove i primi passi,

mi ci accompagni per mano,

stai un po’ lì con me

e mi mostri, che non c’è nulla da temere

mi insegni ad amarti, ad amarmi, ad amare.

Mi sento nuovamente autorizzato

a sognare e, nel tempo del sogno,

a danzare insieme all’In.Di.Co.,

alla pari,

come alla pari è stato con te.

Ti guardo negli occhi attraverso

quest’alba antenata,

vita,

e piango, piango di gioia,

perché non ho più paura

di bruciarmi gli occhi

ora che ci sono le stelle.


Noè

[Atrahasis]

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