Sasso di Castalda (PZ), martedì 26 gennaio 2016. VIII° PROGETTO “RAINBOW”. Terzo giorno.
FONDAZIONE NUOVA SPECIE ONLUS
Registro Persone giuridiche n. 429
Prefettura di Foggia
TERZO GIORNO
IL RITO NEL BOSCO DEI FAGGI
Si parte
la mattina in macchina per arrivare in un bosco di faggi.
Giuseppina, una delle
conduttrici, spiega la scelta del contesto del bosco per vivere il rito.
Il faggio
ha radici profonde, si sviluppa verso l’alto e segue le stagioni; non permette a
nessuno di crescere ai suoi piedi, tranne alle piante spinose del fruscio, che
sono anche scaccia topi.
I faggi sono alberi che seguono la loro strada e si incontrano
solo nei loro frutti, ossia verso la luce, la parte più alta, che rappresenta il
globale massimo, che è un po’ la visione che ciascuno di noi ha della vita.
Ci
troviamo in presenza di tanti elementi naturali: neve, alberi, terra…
Ci
affidiamo alle indicazioni dei
conduttori che sono, oltre a Giuseppina, Daniela, Sasha, Nadia, Mattia e Alberto.
Formiamo un
cerchio e, con il contributo di tutti, accendiamo un fuoco, davanti al quale ognuno di noi esprime un proprio pensiero. Uno dei
conduttori legge un pensiero antenato lasciatogli dal padre, che rappresenta un
inno all’inizio di una vita da uomo.
Una donna del gruppo, con solidarietà, fa
una sua immersione dolorosa: concretamente si abbandona a madre terra, per ringraziarla di averla
accompagnata nel suo viaggio fuori da se stessa, ma anche di averla accolta
quando, l’estate scorsa, finalmente si è arresa, iniziando il viaggio di ritorno
verso sé.
Si è poi rialzata dalla terra fangosa, più intera e consapevolmente
rinnovata.
Questo suo gesto spinge anche altre donne ad un contatto vero e nudo
con la terra che tutto accoglie.
I conduttori ci chiedono poi di dare le spalle al fuoco e di cambiare prospettiva, per
trovare una nostra direzione in libertà, da vivere come momento in
solitudine, e dopo questa breve esperienza preparatoria di isolamento, siamo
ritornati di nuovo in cerchio, e i conduttori ci hanno introdotto ad una nuova
fase del rito.
Dopo
essere stati bendati con una benda bianca, che rappresenta la luce e la
possibilità di racchiudere tutti i colori dell’arcobaleno e della vita, siamo stati accompagnati in modo sparso in
diverse zone del bosco, e ciascuno è stato a contatto con un faggio, in attesa
di ascoltare un richiamo guida, l’ululato dei lupi e l’accompagnamento
musicale.
In questa fase ognuno ha dovuto sfidare se stesso: paure, limiti,
ansie, legate al non poter vedere per ritrovare il focolare del gruppo e il
ritrovo del branco.
In quella fase in
solitaria e di avvicinamento, ognuno ha potuto sperimentare emozioni contrastanti e/o ambivalenti: paura,
smarrimento, desiderio di ritrovare il gruppo ma anche paura del caos che le
relazioni generano quando non si sta bene con se stessi.
Ognuno è stato accompagnato a passare da una
posizione di isolamento a rientrare in relazione, a reinserirsi nel caos
dell’altro. Rientrati nel gruppo, i conduttori ci hanno tolto la benda e
sporcato il viso con la terra, a simboleggiare il ritrovarsi dopo la fatica. Abbiamo condiviso i vissuti e sono emerse le
paure legate alle proprie radici, mentre per alcuni è stato un riconciliarsi con gli
antenati.
La natura diventa a volte anche un rifugio per paura delle
relazioni e delle delusioni umanoidi ed è legata al desiderio di liberarsi da pesi e
catene ereditate.
Tutto il gruppo, guidato da alcuni più solidali accompagnati dai
conduttori, ha potuto osservare in dinamica la “morte” di una madre, coperta da
foglie, ai piedi di uno dei faggi.
E’ emersa la
difficoltà di distinguersi e separarsi dalle parti morte dei genitori, dalle
loro pesantezze che non liberano i
figli, ma ne alimentano a loro volta il desiderio di morte.
E’ necessario, per
crescere, saper prendere una propria strada per non vivere una vita da bambini
addolorati e frantumati.
Il rischio che emerge è di perdersi nelle parole e
non trasformarle in azioni concrete, rischiando di far abortire possibili
cambiamenti.
Questa
dinamica suscita reazioni e fa riflettere sul significato del rito e sulla
difficoltà di sapersi abbandonare.
Dopo c’è
stato il rientro nel cerchio e ad ogni partecipante è stato dato un seme da
lanciare o piantare sottoterra, con il quale simbolicamente si voleva far
marcire qualcosa nella nostra vita, qualcosa che ci fa morire, per poi rinascere con
leggerezza.
Ci sono state anche alcune immersioni, in cui è emersa la tristezza
rispetto anche a vissuti di perdita o di legami che soffocano e che
lasciano aperti dei bisogni.
La presenza di due giovani anticamente abili ci ha
riportato in questa fase all’umiltà vera che ci serve per
vivere una vita piena, per godersi le diverse sfumature delle
emozioni attraverso i codici profondi senza perderci in ragionamenti inutili,
dipendenti dall’esterno.
Dopo una
pausa pranzo con panini preparati dal gruppo, sono state consegnate delle
tuniche bianche: il bianco, colore originario che racchiude di tutti i
colori dell’arcobaleno, diventa simbolo di rinascita dalle sofferenza. In quel
bianco possiamo riscrivere la nostra vita, colorarla o sporcarla di ciò che per
noi è importante e ci rappresenta in questo progetto.
Dopo
momenti di leggerezza e scherzo, verso le 17 si riparte per ritornare nella
struttura per rilassarsi e poter fare dei bilanci.
Il rito ci
accomuna nelle nostre diversità, ci dà una prospettiva per cogliere il legame
con ciò che è il mondo antenato, fa crescere un senso di appartenenza, ci
avvicina, ci fa diventare più branco.
Si finisce
la serata in allegria, scatenandosi in balli, ripartendo dai nostri corpi, non
solo corpi che soffrono, ma che
condividono, vivono, intrecciano.
Gian
Felice ed Elisabetta