STORIE E RACCONTI: “MI CONGEDO DA TE E TI RINGRAZIO DI AVERMI CONCESSO IL TEMPO DI RIAPPACIFICARMI CON TE”.
FONDAZIONE NUOVA SPECIE ONLUS
Registro Persone giuridiche n. 429
Prefettura di Foggia
Paola ci dona una parte di vissuto forte e profondo:
CARA MAMMA, CON TE E GRAZIE A TE…
Cara
mamma,
Con te e
grazie a te, ho appena vissuto un’esperienza dolorosa, molto dolorosa – le tue
sofferenze, la tua agonia, la tua morte – che però mi ha permesso di crescere, perché sono riuscita ad affrontarla in maniera adulta, matura,
pacata.
Io che
non accettavo la tua malattia, il tuo invecchiare, il tuo decadimento fisico,
quel tuo diventare ogni giorno più fragile, più debole, più incapace di
provvedere a te stessa, perfino di camminare.
Con molta fatica, con molte
contraddizioni, con molto dolore, con un grande peso sul cuore, con molti sensi di colpa, ti sono stata comunque accanto, anche con quella rabbia antica che di
tanto in tanto ancora e ancora affiorava in me e mi soffocava.
Durante la tua prima crisi cardiaca in
ospedale, a cui ero presente, ho letteralmente perso la testa: non riuscivo a
sopportare la vista della tua sofferenza, della tua difficoltà a respirare, dei
tuoi violenti conati di vomito, quando ti rizzavi all’improvviso a sedere, ti
aggrappavi alle sbarre del letto e gridavi: “Voglio morire!”
Proprio
quella mattina, oltretutto, avevamo avuto una discussione animata, nel corso
della quale non ti avevo nascosto di non condividere per niente ciò che mi
stavi dicendo e lo avevo fatto in maniera piuttosto dura. Quando la crisi è
passata, ti ho chiesto scusa e tu mi hai risposto: “Eh beh, era quello che
pensavi!”
Da quella
prima crisi di cuore – ne sono seguite altre due – ti sei ripresa ed io, quando
stavi un po’ meglio e pretendevi di dare ordini a destra e a manca e di
controllare tutto, come tuo solito, di nuovo sentivo salire dentro di me quel
rancore sordo verso di te e stavo male, anche perchè non riuscivo a spiegarmi
questa ambivalenza.
Pian piano
il tuo precario stato di salute è peggiorato: un nuovo ricovero, la trombosi,
la paralisi della parte destra del corpo, il coma.
Io
continuavo ad essere preda di sentimenti contrastanti, che acuivano il dolore,
che mi pesava sul cuore.
Il giorno
successivo alla trombosi – era domenica – sono venuta in ospedale proprio per
starti vicino da sola, per dirti delle cose, perché sentivo che dovevo
cominciare ad accoglierti, ad accompagnarti, ma non ce l’ho fatta: ti sono
stata accanto per ore senza riuscire nemmeno a stringerti la mano, mentre Gigi,
di ritorno da un viaggio a Matera, ti parlava, ti accarezzava e il mio malessere
cresceva.
Poi, il
lunedì sono tornata in ospedale da te con Davide, che percependo la mia
difficoltà, mi ha suggerito di abbracciarti e, finalmente, ti ho abbracciata a
lungo, senza fretta, prendendomi tutto il tempo che mi occorreva, piangendo,
lasciandomi andare a quel dolore profondo, antico, attraversandolo e facendomi
attraversare da esso.
E il
giorno dopo, da sola, l’ho rifatto: ho chiesto agli infermieri una
mascherina, perché avevo il raffreddore e volevo ugualmente abbracciarti e ti ho
abbracciata. Tu hai aperto gli occhi, mi hai appoggiato la mano sinistra sui
capelli, mi hai stretto a te, hai spostato la testa e il collo per sentirmi più vicina, per ricevermi e hai versato una
lacrima.
Questo è
stato il nostro congedo e questo ultimo abbraccio corrisposto mi ha liberata da
quel macigno, che mi premeva sul cuore.
Poi ti sei
aggravata, hai ripreso a fare fatica a respirare, a tratti rantolavi e sono
accorsa accanto a te per accompagnarti, ora più serenamente e pacatamente: ti
ho accarezzata a lungo, tenendoti le mani sulla fronte e sulla guancia quasi a
proteggerti, confortarti, coccolarti, chiamandoti “stellina”.
E tu, mia
nuova stellina, ti sei spenta dolcemente, con un ultimo respiro, quasi un
sospiro.
Ora ero
pronta a lasciarti andare con amore, con dolore, senza più rabbia, rancore,
delusione.
Il giorno
dopo ti ho vegliata, seduta per lo più su una panchina di pietra – la stessa di
quando, da bambina o adolescente, andavo a trovare la nonna in ospedale – di fronte
alla camera mortuaria e lì ho atteso e accolto coloro che venivano a darti l’estremo saluto.
Venerdì 20 novembre, giorno del funerale, sono arrivata per prima, mi sono accordata con
l’autista del carro funebre perché passasse nella tua via, davanti alla tua
bella villa e anche io ti ho dedicato il
mio addio:
“Cara mia stellina,
mi conforta molto il fatto di essere riuscita
ad abbracciarti, accarezzarti come non mai.
E tu mi hai stretta a te!
Ti voglio
bene e mi congedo da te con serenità”.
Ho chiesto
poi al parroco di poter leggere all’altare con Mara il nostro contributo alla
celebrazione del rito funebre.
La chiesa
era gremita di parenti e amici venuti a salutarti anche da lontano: dalla Val
di Susa, da Verona, da Livorno e la messa era cantata dalle suore bianche del
convento dell’Immacolata, presso cui, da bambina, andavi a ricamare e la cui
quiete ti aveva colpita al punto di volerti fare suora.
Il
sacerdote nell’ omelia ti ha ricordata con le parole di noi tuoi figli e dei
tuoi nipoti, trascritte sul quaderno, messo a disposizione dei visitatori nella
camera mortuaria.
Io ero
serena, in sintonia con me stessa, sentivo di essermi riconciliata con te e con
me e quando il sacerdote mi ha fatto cenno, con semplicità ho letto la tua bella poesia dal titolo
“Santarcangelo, la piccola Atene della Romagna“.
Quella poesia che ti rispecchia
in pieno, rispecchia il tuo amore per il tuo paese natale e la tua
fede profonda e autentica:
“Santarcangelo,
la piccola Atene della Romagna,
(carica di
memorie è là in basso la sua verde campagna)
si
schiude, sulla collina, splendido fiore,
attira
brezza marina, vento, sole,
raccolto,
armonioso, ridente
racchiude
con gioia la sua gente,
piccolo,
grande paese, dal Cielo protetto,
vi
garriscono rondini sotto ogni tetto.
Arte,
musica, teatro, poesia
si
respirano ovunque per la via:
“e’ paeis
di piteur e di poeti”, così è chiamato,
da italica
gente e da stranieri onorato.
Pedretti,
Baldini, Bernardi, Moroni, Nicolini, Fucci, Guerra…
tanti ne
vanta questa misteriosa, benedetta terra!
So che
città sei diventata … Dolce nostalgia?
Ripenso
all’antica borgata natia,
e’ bourg
ad sotta e’ bourg ad soura,
dall’alto
e’ vec campanon e’ suneva l’oura.
Quasi
tutti ci conosciamo
e,
cordialmente, voce ci diamo:
“Ciao! A’
t saleut ! Cum vala!
Quant’el
can t veg! Ci sempra piò bela!
E dal
piano salgo, salgo ognor,
un dubbio,
un sospetto mi punge il cuor:
tutto più
bello, più prezioso allor?
O era
giovinezza piena d’ardor?
A svelti passi, di nuovo mi avvio :
pace e
serenità mi giunge da te e da Dio.
Ecco la
Chiesa Collegiata,
il
Monastero dell’ Immacolata,
dei
Malatesta la Rocca incantata!
Si
rincorrono i ricordi … Tutto vero?
Giovanna,
tot’e pasa, anche il mistero!
Salvo
ancora: a vag d’i’ fre’.
Pregando,
con amore, percorro la scalinata,
cento
gradini, dai Francescani calpestata
e vedo la
silenziosa chiesetta in cima alla collina:
bellezza
intorno, quiete, musica divina.
Tante ore,
belle e brutte, sono passate,
quante
ancora me ne saranno assegnate?
Io, certo,
tra i santi, non sono elencata,
ma a
novantadue anni attendo serena la chiamata.
La notte
scende col suo grigio velo,
ancora il
mio pensiero si rivolge al Cielo.
Dio
ringraziando, guardo l’orizzonte,
l’
azzurro, il sole, il mare a me di fronte:
Deo, Deo
gratias dalla marina al monte!
Ave, ave,
Maria, gratia plena,
mi
sussurra nel cuore una dolce cantilena!”
Poi ho
raccontato che, dopo la trombosi, noi figli con i nostri figli e nipoti, ti
abbiamo abbracciata, accarezzata, coccolata, io come non mai e Mara, con
Margherita in braccio – tua prima nipote e tua ultima pronipote – ha letto alcuni
passi da “L’abbraccio” di Grossman: è un dialogo fra il piccolo Ben e sua mamma,
che gli dice che è unico e speciale, ma il bimbo ribatte che non vuole essere
unico, perché così è solo. La mamma lo abbraccia e lui sente che in quel momento
non è più solo.
Infine,
sempre dall’altare, ho concluso il mio commiato da te, precisando che regalavo quel libro a mio figlio
Alessandro, a cui l’ho consegnato abbracciandolo a lungo – dei miei tre figli è
quello che faccio ancora fatica ad abbracciare.
Al
cimitero, ho continuato ad accompagnarti con devozione, ho gettato nella tua
fossa una copia della poesia, una zolla
sminuzzata di terra, un fiore giallo e mi sono definitivamente congedata da te,
mia cara mamma Giovannina.
Ora mi
congedo di nuovo da te e ti ringrazio di avermi concesso il tempo di
riappacificarmi con te.
Ti auguro con
tutto il cuore di riposare in pace là dove sei. Te lo meriti, perché hai
sofferto molto e non solo nei tuoi ultimi giorni.
Con amore,
Paola
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Ti abbraccio forte Paola; Giovanni Chiarello