“IL FILMATO DI GIOVANNA”, brano tratto dal LIBRO del Dr. Mariano Loiacono – DROGA, DROGATI E DROGOLOGI. Un brano Vintage.

FONDAZIONE NUOVA SPECIE ONLUS

Registro Persone giuridiche n. 429 

Prefettura di Foggia



“IL FILMATO DI GIOVANNA”.

Gli ingredienti della Torta Marianna. 


«Nel lontano 19… in un piccolo paese sperduto della Daunia c’era un uomo di nome Mariano. Era da poco uscito da un convento di preti missionari quando incontrò Giovanna; era un tipo basso, un po’ tar­chiato, malvestito, mezzo imbranato ma aveva due profondi occhi che incan­tavano… e soprattutto aveva scoperto degli ingredienti fatati per una torta, la “TORTA MARIANNA”».

Giovanna era una ragazza magra, molto magra, senza seno e gambe storte, ma anche lei molto simpa­tica; si era appena convinta che gli uomini non face­vano più per lei perché troppo egoisti e sfruttatori e cercava qualcosa che avrebbe potuto dare un senso alla sua vita, qualcosa che av­rebbe potuto riscattarla dal suo essere donna, un qualcosa però che non do­vesse essere il matrimonio.

Mariano si presentò a Giovanna con pochi in­gredienti per fare una torta favolosa e disse: «Ti potrà sembrare che io abbia solo questi ingredienti, invece sono certo di averli tutti; aiutami tu a ritrovarli perché ti assicuro che faremo una torta grande quanto il mondo dove tutti potranno sfamarsi e per noi la gioia sarà grande». Giovanna non desiderava niente di meglio, era proprio quello che cercava; si misero così a lavorare.

I primi anni furono molto duri e si lavorava giorno e notte; ormai la vita aveva un unico senso: ritrovare tutti gli ingredienti per fare la torta. Gli anni passa­vano e gli ingre­dienti si accumulavano sempre più; la gioia, le soddisfazioni, la voglia di vivere colorivano legiornate
intense di lavoro. Il tutto si svolgeva all’interno di una piccola casa e
nell’intimità di una famiglia che si era venuta a creare.

Finalmente tutti gli ingredienti erano pronti e si po­teva dare inizio alla preparazione della fatidica torta. Gli in­gredienti, le dosi e tutto il resto andavano a pennello; il tutto si amalgamava a perfezione e i co­niugi già pregustavano la torta. A questo punto, es­sendo la gioia molto grande, Ma­riano pensa di invi­tare qualche persona ad assaggiare la torta che si stava approntando; e qualcuno cominciò ad accettare il suo invito, anche perché ormai la torta cominciava a di­ventare qualcosa di reale.

La torta era quasi pronta; si trattava di aspettare solo il tempo di cottura e poi la gioia sarebbe stata in­contenibile. Mariano intanto continuava a fare inviti a dritta e a manca; ogni occasione era buona per invi­tare gente a casa.

La torta era ormai pronta, la gente poteva ini­ziare i fe­steggiamenti perché si stava alle ultime bat­tute. Ed ecco pronta la torta!

Mariano non vedeva l’ora di presentarla agli in­vitati; ma, ahimè, non era ancora finita: bisognava ancora guarnirla, curare l’estetica, darle insomma gli ultimi ritocchi. E Gio­vanna, nonostante il gran da fare, non si dava mai posa e studiava mille modi per abbellire sia la torta che il suo Ma­riano…»

E’ a questo punto della storia della Torta Ma­rianna  (ovvero della «Storia di Mariano e Giovanna» vista da Gio­vanna) che si presentò per caso e mio malgrado l’esperienza coi drogati… con «ingredienti» particolari non previsti nella ricetta originaria e che io e Mariano non ave­vamo minimamente ricercato.

Qualche anno fa, infatti, ebbi modo di conoscere per­sonalmente Roberto, un vero e proprio tossico­mane di origine troiana ma residente a Milano, che era ri­tornato a Troia per disintossicarsi. In paese veniva segnato a dito per­ché tutti sapevano che era un tossi­comane… e lui stesso si faceva notare perché vestiva in modo strano; io, come ho già detto, ebbi modo di co­noscerlo più da vicino perché era in cura da Mariano. Il mio atteggiamento nei suoi con­fronti era quello della massima disponibilità… massima compren­sione… molto affetto, facendo diventare secondari i miei problemi; lo salutavo ogni volta che lo incon­travo… spesso mi fermavo a parlare con lui, magari per chiedergli cose banali…. mi sentivo soddisfatta per avergli dato almeno l’occasione di scambiare con qualcuno. Facevo questo per­ché ero convinta che Ro­berto fosse un ragazzo deriso da tutti ed evitato come se si trattasse di una bestia rara o in­fetta. Anche nei discorsi che facevo con le mie amiche e conoscenti, descrivevo il tossicomane come un povero dia­volo col­pito da una brutta malattia e mi scagliavo contro la società cattiva e incomprensiva… contro la gente egoi­sta che non sapeva regalare un poco di affetto e di comprensione a queste persone. L’impegno mio, e so­prattutto di Mariano, era di creare possibilità concrete a Roberto e permettergli di sfruttare le sue energie per altre cose e non solo per la ri­cerca della «roba».

A parte Roberto, un’altra esperienza – anche se breve e meno impegnativa – la ebbi con Ido. Di lui mi parlava spesso Mariano, finché un giorno mi chiese di accompagnarlo a C. per andarlo a trovare a casa sua, dove si stava facendo la «scimmia». Fu la prima volta che sentii pronunciare questo termine; anzi incominciavo ad accorgermi che il problema non era così semplice come lo vedevo io e incominciai così ad incuriosirmi di tutto ciò che riguardava il problema Tossicomania.

Quando arrivammo a C. mi indicarono Ido che stava in mezzo a un gruppetto di giovani. Mentre si avvicinava alla macchina, ebbi l’impressione di tro­varmi di fronte a un frocetto: ancheggiava nel cam­minare tutto adorno di spille… collanine… orecchini. Dopo la presentazione ci avviammo verso casa; lì, at­traversammo diverse camere buie e piene di di tanta roba, come se fossero dei magazzini, e poi final­mente arrivammo in camera sua. Mi prese un colpo!… era tetra, lugubre, arredata in modo soffocante, non c’era un buco per far entrare un poco d’aria; pure mia fi­glia Bar­bara provava un senso di paura e non voleva entrare, tiran­domi per la mano. Poi Ido accese delle luci rosso-blu, mise un disco mentre noi ci accomo­dammo su un divano molto basso per parlare; alla fine si mise a suonare la chitarra e cominciammo tutti a cantare, abituati ormai all’ambiente e all’arredamento.

Un po’ incuriosita da questa esperienza e consta­tando che da un bel po’ di tempo Mariano si era messo anche in al­tre «storie», volli frequentare più da vicino quel suo am­biente di lavoro in Ospedale per ca­pire meglio che «ingredienti» stesse ancora ricer­cando e per fare quale torta. Avvertivo, infatti, la strana sensazione di rimanere esclusa dalla festa… di dover lasciare il posto ad altri invitati dell’ultima ora… di poter mangiare solo una piccola fetta della torta, se non addirittura esserne privata completa­mente; e tutte queste eventualità mi costernavano oltre modo. 

In Ospedale conobbi Aida, Silvana, Amalia e al­tri «invitati» che sapevano della Torta Marianna e che aspetta­vano pure loro l’inizio della festa. Mi incuriosii di più e co­minciai a frequentare i gruppi di psicotera­pia del mercoledì pomeriggio. In questi incontri mi colpì molto lo scambio tra un tossicomane e un malato mentale; mi incuriosì anche vedere questi ragazzi ora operatori convinti ed entusiasti, ora veri e propri «malati» senza interesse alcuno. Tutto que­sto mi colpì molto perché per diverso tempo non riuscii a darmi un ruolo né da operatore… né da malata: ero molto rigida ed assorbivo tutto senza partecipare attiva­mente. Spesso, ad esempio, mi dava fastidio vedere Ido completa­mente menefreghista e assente nei gruppi, ma non osavo polemizzare perché pensavo di provocargli dispiacere e soprattutto mi sarei «sputtanata».

A proposito di menefreghismo! Mi ricordo che un giorno Ido venne in Ospedale tutto bagnato dalla testa ai piedi… sembrava un pulcino, anche perché ha pochi ca­pelli; ancora una volta mi meravigliava il suo menefreghismo addirittura nei riguardi del suo corpo, come se non gli ap­partenesse!

Tornando ai gruppi, comunque, mi incuriosì anche l’atteggiamento di Amalia che vedevo molto di­sinibita: qu­ando aveva voglia di dire una cosa la di­ceva, si alzava quando un discorso la scocciava, man­dava a fare in culo la gente con molta spontaneità. Desideravo anch’io essere spontanea, ma sentivo come qualcosa che mi bloccava… qualcosa che mi spingeva a dover salvare la facciata esterna; spesso mi di­cevo: «Lei è una malata, ormai è considerata tale e può fare qualsiasi cosa; io invece no e non posso per­dere o guastare la mia ipocrita facciata».

Gli incontri del mercoledì pomeriggio mi permi­sero di conoscere più direttamente altri tossicomani: Carlo, Pal­mira, Rosa e Fulvio. Le due donne mi incu­riosivano di più; quella che ebbi modo di conoscere meglio fu Palmira che sembrava una vera «drogata», rispetto a Rosa che aveva un aspetto più «per bene».

Mariano mi aveva parlato spesso di Palmira. La cosa che più mi aveva colpito era stato il sapere che aveva due fi­gli e che di fronte a questo fatto non faceva una grinza. «Possibile, mi chiedevo, che una donna possa ignorare due figli»! Stentavo comunque a ve­dere Palmira come mamma dedita ai suoi figli, amo­rosa e affettuosa… ma mi rendevo conto che queste erano «idee» che andavano bene per me; la vedevo in­vece molto aggressiva, con la sofferenza che si leggeva in viso, con una storia di vita infelice.

Un giorno Mariano la portò a casa. Io feci di tutto per metterla a suo agio, ma forse sbagliai a pre­occuparmi ecces­sivamente; volevo farla mangiare molto come segno del mio affetto e della mia comprensione nei suoi riguardi. Ci avrei giurato che Palmira dopo  aver trascorso quelle ore con noi non si sarebbe «fatta» quel giorno, anche perché durante il pranzo non faceva altro che ripetere di voler smettere una volta per sempre… non capivo proprio niente del drogato! Invece con mio grande stupore vidi che dopo il pranzo chiese la solita fiala di Morfina, quasi a fare saggio delle sue bravate, se la iniettò in nostra pre­senza. Era la prima volta che vedevo una persona farsi da sola una «endovena», rimasi scioccata ma soprattutto scoraggiata per tutto quello che avevo cer­cato di fare in termini di affetto e di comprensione; mi resi conto che non era servito a niente! Palmira aveva raccontato un sacco di balle sul desi­derio di smettere e ci aveva fatto capire che nei fatti se ne fregava di noi e di tutto.

Incominciai così a ridimensionare la mia disponibilità nei confronti del tossicomane e a credere di meno alle cose che dicevano, perché per una elevata percentuale potevano essere storie inventate… come inventata era la loro voglia di smettere.

Un altro giorno Mariano portò a pranzo Carlo e anche con lui fu la stessa minestra. Solo che questa volta sapendo già  come andavano le cose non mi sforzai granché come disponibilità: cucinai alla buona senza troppa fantasia e non tentai neanche di stare ad ascoltare una persona così diversa da me, né mostrargli affetto e comprensione. Mi rendevo conto che solo queste cose non bastavano e mi chiedevo allora come porsi coi tossicomani; ma la cosa che mi ve­niva più spontanea era quella di un netto rifiuto, anche se capivo che in questo modo non arrivavo a niente e non ri­solvevo niente, anzi perdevo anche quel po’ di rapporto che avevo creato in precedenza.

Un po’ alla volta cominciai a conoscere più da vicino tutti i tossicomani più anziani che frequentavano il Centro. Mi rendevo conto sempre più che l’atteggiamento di netto rifiuto non lo potevo avere con tutti, perché ognuno aveva un carattere diverso e una storia diversa; non solo, ma a volte li vedevo sinceri e a volte falsi… questa comunque è una caratteristica che accomuna un po’ tutti! Mi accorgevo, poi, che questa considerazione sulla diversità tra i vari tossico­mani giocava un ruolo importante nel comportamento di Mariano, il quale per ogni nuovo trattamento disintossicante partiva sempre come se si trattasse della prima volta.

Con l’arrivo dell’estate, comunque, me ne andai al mare con la bambina e mi distaccai da questi problemi. Mi ricordo che mi arrabbiai molto quando Mariano mi rac­contò dell’impresa con Ido e Palmira in campagna; soprat­tutto mi diede fastidio il sapere che Palmira aveva indossato perfino la mia roba intima e che tanto spreco era servito solo a rompere l’ago del giradischi e a bruciare divano e lenzuola.

Ma non passò molto tempo che anche Carlo decise di smettere e di farsi la «scimmia» in campagna. Mariano asse­condò subito questo tentativo e si infognò di nuovo… con la scusa che Carlo era più serio e aveva altre motivazioni per smettere veramente. Quello che più mi meravigliava era il fatto che Mariano ricominciava sempre daccapo con lo stesso entusiasmo e la stessa disponibilità di prima, come se non si volesse arrendere davanti all’evidenza dei fatti… mi sembrava anche lui un vero e proprio tossicomane! A que­sta esperienza partecipai pure io, anche se con molto di­stacco perché non ci credevo; provai comunque ad aspet­tarmi qualcosa di buono in una situazione che secondo me era tutta negativa.

Il primo giorno Carlo venne a pranzo a casa; subito dopo l’accompagnammo in campagna e restammo con lui fino a tardi. Carlo, a differenza di Ido, lavorava tutto il giorno e aiutava Pino, il figlio del proprietario del podere. Mariano mi assicurava continuamente che i nostri sforzi non sareb­bero andati al vento… Pure io mi stavo convincendo che, a veder la buona volontà di Carlo, qualcosa doveva venir fuori. Carlo, però, spesso diceva di aver paura del ritorno al vec­chio ambiente e ai «vecchi compagni», quasi desiderando che l’esperienza della campagna durasse interi anni.

Durante questa esperienza con Carlo, ricominciai a frequentare il Centro e qui conobbi altre persone che lavo­ravano come «volontari»: Gina, Ripalta, Rosalba, Rosaria, Ca­terina, Dino, Luigi. Al Centro conobbi pure un altro medico che, come Mariano, si interessava ai drogati, il Dr. D’Angelo. Costui mi colpì perché difendeva i tossicomani su ogni fronte e con tutto l’impegno possibile: sembrava volesse dire: «il tossicomane non sbaglia mai, siamo noi a sbagliare». Questo atteggiamento mi metteva altamente in crisi per la posizione di rifiuto che avevo nei riguardi del tossicomane e mi chiedevo come bisogna comportarsi al­lora… che disponibilità avere… cosa rimettere di nuovo in discussione.

Intanto Carlo aveva finito la «scimmia» ed era tornato a casa tutto diverso; si rimise a frequentare il Centro e sem­brava che tutto filasse liscio. Io cominciai quasi a ricredermi del mio atteggiamento di sfiducia.

Una sera, però, mentre Mariano chiudeva il Centro per tornarcene a casa, arrivarono due poliziotti che trasci­navano come due fantocci. Carlo e
Lorenzo ammanettati
. Sapemmo dal poliziotto che avevano rubato in una
farma­cia; Mariano dette qualcosa per la notte, poi li portarono in
galera
. Era la prima volta che vedevo persone conosciute con le manette ai polsi; non riuscivo ad immaginarmi Carlo aggressivo perché aveva avuto sempre un viso dolce, piuttosto sofferto… ma l’aria del ladro non ce l’aveva pro­prio. Mariano mi fece capire che per il tossicomane il car­cere per furto, scippo, spaccio, ecc. è una tappa quasi obbligatoria.

Per molto tempo non rividi più Carlo; seppi che era uscito dal carcere e non veniva più al Centro. Lo rividi dopo molto tempo, ma il mio stato d’animo nei suoi confronti non era più quello di prima. La mia disponibilità iniziale era diventata insofferenza. Ero ormai arrivata alla conclusione che l’emarginazione la volevano loro… che era gente senza scrupoli… che era gente che non aveva il minimo rispetto per gli altri… che qualsiasi cosa si facesse per loro non serviva perché se ne fregavano di tutto e di tutti alla prima oc­casione… che era una battaglia non solo difficile ma addirit­tura inutile. E questa insofferenza cresceva fuori misura al pensare che Mariano invece continuava a sprecare tante energie per queste storie e sembrava quasi aver abbando­nata la «Torta Marianna», che rischiava ormai di rimanere in­compiuta a causa degli ingredienti fuori ricetta e non amal­gamabili.

Nonostante questi vissuti, mi promisi di frequentare anche gli incontri provinciali del venerdì a cui partecipa­vano D’Angelo con quelli di S. Severo e alcuni rappresen­tanti della Comunità Emmaus. In questi incontri ebbi modo di scambiare con tossicomani di S. Severo e con altre per­sone che si interessavano al problema in qualità di «volontari».

Spesso capitava che i tossicomani erano presenti an­che il mercoledì con i malati mentali e che quest’ultimi ve­nivano anche il venerdì; così un poco alla volta i compo­nenti dei due gruppi si fusero. Io, che mi sentivo molto tesa ai gruppi del mercoledì e molto curiosa a quelli del venerdì, in seguito a questa fusione mi sentii in crisi perché non sa­pevo più come comportarmi, a causa della mia rigidità men­tale. Anche Fulvio era rigido. Ricordo che un giorno si arrabbiò molto dicendo che lui non poteva assolutamente parlare coi cosiddetti «malati di mente» perché si riteneva molto «superiore» e non voleva essere messo sullo stesso piano solo perché si «bucava»; desiderava, perciò, che i due gruppi restassero due cose separate e distinte. Con mio grande stupore, però, mi accorsi che i malati mentali riusci­vano benissimo a comunicare con i «drogati» e con gli ope­ratori. Anzi, la cosa più bella era che si riusciva così tanto a scambiare che ognuno di noi riconosceva in sé una parte malata e cercava di mettersi in discussione. Fulvio stesso, che prima si credeva un «dio», cominciò ad accettare che anche in lui c’erano delle parti malate e che scambiare con queste persone non era affatto negativo.

Ovviamente tutto questo avveniva perché, secondo me, Mariano ci guidava mettendo in pratica certe sue teorie e si ostinava come se si trattasse di trovare altri «ingredienti» da includere nella «Torta Marianna».

Gradualmente, però, la mia disponibilità a tutte queste attività diventò limitata perché stavo al termine della mia se­conda gravidanza. Sentivo, inoltre, il bisogno di lasciare un po’ di spazio alle mie cose e mi dava quasi fastidio il fatto che Mariano parlasse troppo del suo Centro, delle sue attività, dei tossicomani… e poco di noi e della nostra torta. 

Anzi dopo il parto le cose peggiorarono, perché mi venni a trovare in un momento particolare e delicato della mia vita: cominciavo a vivere con due figlie a carico e… un ma­rito così incosciente, allora lo vivevo così… la mia perso­nalità a pezzi perché da mesi non lavoravo a causa della gra­vidanza e non avevo più contatti con l’esterno; stavo in­somma dannatamente depressa perché mi sembrava di non riuscire più a realizzare niente insieme a Mariano e non ve­devo niente di buono in prospettiva, se non il suo darsi «anima e core» a quegli «ingredienti» e a quegli invitati che non c’erano mai stati prima di allora nella nostra faticosa storia. Finì che mi chiusi in me senza speranza alcuna, decisa ormai ad autodistruggermi!

Con questo stato d’animo in atto, una sera Mariano mi propose di portare a casa per parecchi giorni Palmira e Ro­berto perché ancora una volta avevano deciso di smettere e lui, come al solito, aveva promesso loro di stare vicino «24 ore su 24». Ebbi un colpo terribile!

Ricordo che mi arrabbiai a tal punto da non rivolgergli la parola per l’intera giornata; prima però gliene dissi di tutti i colori, che era un incosciente… che stavano diven­tando più importanti i tossicomani di me e della famiglia… che tutto era inutile come stavano a dimostrare le prece­denti esperienze… che era chiaro che volesse buttare all’aria la Torta Marianna.

Mariano mi fece sfogare senza interrompermi: questa è la sua tecnica in simili frangenti! Il giorno dopo, però, ri­prese il discorso con più calma dicendomi che se aveva ac­cettato questo ennesimo infognamento era perché c’erano dei motivi nuovi: infatti c’era una prospettiva di lavoro per Palmira; per Roberto, invece, il trasferimento a Troia del fratello Nino, quel pirla in gamba; c’era poi la Legge Aniasi e soprattutto al Centro si erano formate varie iniziative alle quali partecipavano attivamente alcuni tossicomani.

Mi convinsi ad accettare più per convenienza che per quei discorsi, ma gli raccomandai di non prendere mai più impegni del genere perché ormai ero stanca e non volevo più saperne di tossicomani, né volevo che mi fossero rubati quei pochi minuti di tempo che avevamo. Mi trovai così di fronte ad un fatto, costretta ad accettarlo. Ovviamente accet­tai tutto passivamente e già immaginavo di dover su­bire tutte le trovate di Palmira e Roberto senza avere la forza di reagire alle cose che mi avrebbero scocciato, che non avrei condiviso e che neanche avrei potuto cambiare.

Immancabilmente arrivò la goc­cia che fece traboccare il vaso. Già mi portavo dentro una tensione enorme per tutto quello che dovevo subire in que­sto ennesimo tentativo. Ricordo che quel giorno dovevo andare a prendere alla stazione la mamma di Mariano che tornava da Milano. La mattina me ne ero andata a Foggia con la macchina e dopo aver ascoltato una lezione al Corso di ri­qualificazione per bibliotecari andai alla stazione. Qui feci diversi giri nelle sale di attesa senza peraltro trovare la mamma; me ne andai, anche perché il treno successivo ar­rivava alle due del pomeriggio. Quando mi presentai al Centro, Mariano quasi quasi se la prese con me perché non credeva possibile che la mamma non stesse alla stazione; ma per farla finita ci tornai di nuovo. C’era un traffico male­detto, avevo tanta rabbia dentro e non sapevo come but­tarla fuori; alla stazione, poi, constatai di nuovo che la mamma non c’era e ritornai indietro. Mariano non dette la minima importanza al mio stato d’animo; mi chiese di par­tecipare ad una riunione dove poteva essere importante il mio intervento, in quanto si doveva parlare della scelta di Ripalta di rinunciare all’incarico di supplenza annuale. Non volli accettare l’invito perché ero molto nervosa e me ne andai tutta sola in un’altra stanza; anche di fronte a questo fatto Mariano restò indifferente. (A distanza di tempo mi resi conto che sbagliai perché il mio nervosismo si accu­mulò di più, mentre se avessi accettato l’invito e non mi fossi chiusa in me stessa forse avrei potuto risolvere i miei problemi insieme agli altri… ma come al solito persi l’occasione)!

Ricordo che al ritorno a Troia ci portammo in mac­china Luigi, Ripalta e Roberto; ricordo pure che correvo come una matta e Mariano mi faceva domande per provo­carmi… io gli davo risposte secche… acide… oppure non ri­spondevo; ero troppo nervosa, non ero stata mai così ner­vosa. Desideravo stare molto tempo con Mariano per par­largli, solo così mi sarei calmata; ma mi rendevo conto che l’esperienza era iniziata e Mariano non poteva più dedicare nessun minuto a me e alle mie cose… se volevo andare avanti dovevo mettere in frigo i miei problemi e dedicarmi agli altri, come spesso capitava. Questa volta, però, sentivo di non farcela, anche perché non volevo accettare questa ennesima esperienza di essere presa per culo.

Appena finimmo di mangiare, Mariano andò alla casa di Roberto dove stavano anche Luigi e Ripalta; prima di tor­narsene a Foggia passarono di nuovo da casa.

Io intanto avevo pensato di fare qualcosa di diverso… magari uscirmene; mi sentivi impazzire all’idea di dover stare lì ad aspettare il rientro di Mariano, mentre invece av­remmo potuto passare un bel pomeriggio insieme – come una volta – e cercare di risolvere la mia crisi; ma ormai i tos­sicomani erano diventati troppo importanti! Quando però salirono sopra, cercai di fare buon viso e cattiva sorte… come al solito. Poi qualcuno mi chiese che fine aveva fatto la madre di Mariano; e così nel raccontare l’episodio scaricai molta rabbia e trovai una buona maschera nel giustificare il mio comportamento e tutto il resto.

Ma improvvisamente mi sentii come toccata da una bacchetta magica e mi resi conto all’istante che i miei pro­blemi potevano diventare secondari; mi venne addirittura il desiderio di immedesimarmi in quello che stavano per fare, anzi sentii che ci avrei trovato gusto anch’io. E così mi associai pure io al gruppo!… era la prima volta che decidevo di stare per mia scelta con quegli ingredienti; in altri tempi avrei subito represso un simile desiderio o magari avrei aspettato che fosse stato Mariano a prendere l’iniziativa per me. Portai Francesca a casa della madre di Mariano e io e Barbara ci accodammo al gruppo «P. S.».

La sera ci trattenemmo in casa a cenare con Luigi e Roberto e inaspettatamente uscì fuori un discorso interes­sante… almeno per me! Accettai, infatti, che si parlasse delle cose mie ma soprattutto della mia storia con Mariano e del nostro rapporto… di quello che c’era costato ritrovare gli ingredienti… del mio timore che la Torta Marianna restasse per sempre incompiuta… dei nuovi ingredienti che avevano distratto Mariano… della festa tanto attesa che forse mai si sarebbe fatta. E mentre parlavamo di tutto questo, mi ren­devo conto ancora di più di essere una figura molto legata a Mariano, anche se da un po’ di tempo mi ero messa in di­sparte. Anzi proprio quella sera mi sembrava che grazie a quegli inopportuni ingredienti qualcosa in me si stava riav­viando… quasi che stesse per formarsi un nuovo lievito per la nostra storia.

Quando andai a dormire, mi portai dietro tutti questi pensieri e rimasi a lungo sveglia con le luci spente. Ad un tratto, come per incanto, la stanza si riempì di tanti colori e di tante scene… di nuovi ingredienti che inaspettatamente sentivo amalgamabili… della Torta Marianna che poteva di­ventare più grande e più buona; e come in un sogno, mi sembrò che la nostra storia da tempo interrotta si fosse continuata con queste sequenze…

 

«La festa ha inizio; si comincia a tagliare la torta e le prime fette vengono già gustate; Mariano è conteso da tutti. Nell’euforia della festa e nelle novità della torta, Mariano di­mentica Giovanna che aspetta in cucina l’invito del suo Ma­riano. Ma, ahimè, l’invito non arriva mai, anzi Mariano ogni tanto le porta i piattini da lavare  e intanto le riferisce che tutto sta procedendo secondo i suoi piani e si arrabbia per­ché Giovanna non è contenta di queste notizie.

E così Giovanna si chiude tutta sola in cucina senten­dosi come Cenerentola che non potendo partecipare alla festa sogna il Principe Azzurro e aspetta la fata che la tra­sformi e la conduca al Castello! E la Fata arrivò proprio al momento giusto, un giorno che Giovanna aveva deciso di mandare tutto all’aria e ritornare nel suo piccolo di donna senza ideali. Capitò, infatti, che una sera alcune persone invi­tate si presentarono a Giovanna chiedendole di lasciar perdere i piatti da lavare e di partecipare attivamente alla fe­sta, e anche Mariano si unì alle loro richieste. Così Giovanna entrò nella sala e incominciò a gustare anche lei la torta e con grande meraviglia sua e degli invitati si accorse che la torta era proprio come l’aveva immaginata… anzi più si mangiava e più cresceva!…»

In quella notte di visioni dormii poco; all’indomani, però, mi sentii stranamente tranquilla e ristorata, come se avessi ripreso il filo di una ricetta che sembrava persa o ab­bandonata.

Comunque, dopo l’esperienza del gruppo «P. S.» e la ripresa della «Torta Marianna», un giorno sì e uno no ripresi a frequentare il Centro nei giorni in cui andavo anche al «Corso»; poi ritornavamo a Troia in pullman io e Mariano. Nel tempo che stavo al Centro partecipavo più attivamente; sentivo, infatti, il bisogno di rubare un po’ alla volta la tecnica che Mariano usava nei gruppi e che io denominai «Tecnica del polipo». Infatti, secondo me, Mariano era come un po­lipo che con i mille tentacoli cercava di agganciare tutti e così tante piccole energie messe insieme formavano una grande energia. Capivo che i gruppi formati da tante per­sone simili e tante isole non servivano a niente, non scarica­vano niente… al limite erano come un gioco a «ping-pong». Invece nei gruppi dove Mariano usava la «tecnica del po­lipo» succedeva esattamente il contrario. Avrei desiderato tanto assistere ad altre riunioni con Mariano presente per rubargli di nascosto la tecnica. Eppure in precedenza avevo partecipato tante volte a simili riunioni, ma non ero riuscito a cogliere la finezza e la calcolosità dei movimenti di Ma­riano… delle domande… delle risposte… dei silenzi… degli spostamenti continui.

Mi sarebbe tanto piaciuto rivedere quegli incontri, adesso che mi sentivo più matura e ne capivo di più il signi­ficato. Adesso riuscivo a capire molte cose; certo non era molto, anzi era una buona piccola fessura aperta nel grande abisso della mia vita. Mi sentivo ormai attratta da quella pic­cola luce e avrei voluto subito vedere tutto. Sentivo comun­que che quella piccola fessura poteva essere un punto di partenza per prepararmi un grande buco da dove poter vedere molte altre cose… certo non tutto ma come minimo qualcosa di più di quello che poteva offrirmi una piccola fes­sura… e chissà che un giorno quella fessura sarebbe di­ventata una grande finestra sul mondo! Beh,… stavo esage­rando. Qualcosa comunque era davvero cambiata, anche se ero stata un osso duro. Dopo dodici anni di vita con Mariano solo allora cominciavo a gustare concretamente quello che poteva e doveva essere la nostra vita, il senso «reale» della nostra Torta Marianna, l’amalgama sempre più intenso con altri… tanti ingredienti coi quali meglio avrei risolto la mia fame e la loro. Anzi, al contrario di quello che prevedevo, dopo che era terminata quella sofferta disintossicazione di Roberto e Palmira, stavo passando dei giorni bellissimi: ora non davo più tanta importanza a cose concrete… la casa… il vestiario… l’economia… il mio lavoro… la mia fame; pensavo di più a quello che potevo fare assieme a Mariano, al nostro progetto, al Centro futuro; sentivo poi tanta voglia di aprirmi agli altri, anche a rischio che mi rubassero un po’ de mio spazio… sentivo che dovevo farlo, perché lo spazio perso mi sarebbe stato centuplicato altrove, forse soprat­tutto nella Torta Marianna dove… 

«C’è ancora tanto da lavo­rare insieme ad altre persone per preparare una magica fe­sta con invitati di tante specie e di tante nazioni!… E anche per questo, i coniugi Mariano e Giovanna ancora non vivono felici e contenti».

Giovanna

Velluto

2 Commenti

  1. Oltreilmovimento Associazione Culturale

    Non avevo ancora letto questo brano…grazie Giovanna, grazie per il coraggio e l'onestà. Bianco Primo

  2. Unknown

    Stupendi Meglio di Walt Disney, buona la torta io l'ho "assaggiata" ha ha!Complimenti!Dalla fiaba sogno idea delirante alla teoria prassi della saggezza che nutre vi voglio bene grazie!

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